Pubblicato il 16-09-2023
(articolo pubblicato nel nr 2-3/2022 del della rivista Economia della cultura, edita da Il Mulino)
Lo storico divario tra il Nord e il Sud del Paese si riflette anche nelle abitudini di lettura, come confermano ogni anno le rilevazioni pubblicate dall’Istat e da altri istituti di ricerca. Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto Nazionale di Statistica*, che rende conto delle rilevazioni riferite al 2020, in Italia chi ha più di sei anni e legge almeno un libro all’anno “per motivi non strettamente scolastici o professionali” è il 41,4% della popolazione. Un dato medio cui ormai siamo abituati, ma cui non possiamo rassegnarci se lo paragoniamo a quello degli altri Paesi europei. Inoltre, come la temperatura media dell’uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore, così la media dei lettori in Italia è costituita da un Nord che legge (in testa la provincia autonoma di Trento con il 55,5% di lettori) e un Sud che lo fa molto meno (ultima la Campania, con il 28,3%). Se nel Nord si raggiunge un 48% di lettori, al Sud sono estranei alla pratica della lettura due terzi dei cittadini, che peraltro non fruiscono neanche di altri consumi culturali (teatro, cinema, concerti, eccetera). A questi si accompagnano i dati sulla povertà educativa, che si sovrappone a quella materiale, e quelli sulla presenza sul territorio di biblioteche di base e sui servizi da esse offerti. Il rapporto tra iscritti al prestito sul totale della popolazione di riferimento è pari al 15,2% a livello nazionale, ma è molto al di sotto della media in Campania (4,6%), Calabria (6%), Sicilia (6,2%), Molise (6,9%) e Puglia (8,7%).
Al Sud le biblioteche di pubblica lettura sono meno diffuse e soprattutto molto più deboli, poiché offrono servizi ridotti e di inferiore qualità, per cui non può sorprendere che vengano per lo più ignorate dai cittadini.
Quella di essere o non essere lettori sembra dunque sempre meno una scelta e sempre più un destino determinato non solo dal proprio livello sociale, economico e culturale di partenza, ma perfino dall’area geografica di residenza.
Il fatto che il diritto alla lettura, strumento di accesso al sapere e alla partecipazione culturale, nelle regioni del Mezzogiorno sia strutturalmente un diritto negato, lungi dall’essere un problema dell’editoria, è piuttosto un problema di democrazia.
In Sardegna, dove la gran parte dei Comuni ha meno di 1000 abitanti, la percentuale di persone che leggono almeno un libro all’anno è invece del 40,7, in linea quindi con la media nazionale, ma lontana da quella delle regioni con cui condividiamo reddito pro capite, indici di alfabetizzazione, abbandono scolastico e numero di laureati, come ad esempio la Sicilia, dove i lettori sono il 29,5%. È un’anomalia tutta sarda, questa, che invita ad alcune riflessioni.
Intanto, viene spontaneo chiedersi a cosa si debba, questa propensione alla lettura, dove la scolarizzazione è così bassa. Un tentativo di spiegazione lo ha dato Giovanni Solimine già nel 2015: “Due soli elementi possono aiutarci a comprendere l’enorme differenza fra le due isole per quanto riguarda la quota dei lettori e li possiamo individuare negli investimenti che per decenni la Regione Sardegna ha dedicato ai servizi bibliotecari sul territorio: il livello dei servizi delle biblioteche pubbliche sarde è in molti casi di ottima qualità, mentre gran parte delle biblioteche siciliane sono in uno stato di desolante abbandono; del resto, i dati quantitativi sono molto eloquenti e ci dicono che in Sardegna è operante una biblioteca ogni 5.109 abitanti, mentre in Sicilia il rapporto è di uno a 18.499. L’altro elemento da considerare può essere individuato nelle attività di promozione della lettura, svolte con continuità e intelligenza, spesso coinvolgendo i diversi attori della filiera del libro: autori, editori, bibliotecari, insegnanti, librai”. Oltre a crogiolarci in questo buon risultato, però, onestà intellettuale vuole che ci poniamo anche delle domande scomode. Una su tutte: rovesciando il quesito precedente, dobbiamo chiederci come mai, nonostante questi indici di lettura, non aumentino la scolarizzazione, i laureati e il reddito pro capite e non diminuisca l’abbandono scolastico**. È lecito chiedersi se davvero la lettura abbia la funzione salvifica che le attribuiamo. E se ce l’ha, perché non sta salvando i sardi e la Sardegna?
* https://www.istat.it/it/archivio/266127
** In Sardegna i neet sono il 27%, contro il 24 di media nazionale. http://dati-capumano.istat.it/# (dati riferiti al 2018). L’abbandono è al 23%, record nazionale, superiore a quello della Sicilia (22%) e quasi doppio rispetto alla media nazionale (14,5%).
L’ultima rilevazione Istat offre però anche altri dati interessanti: nei comuni centro delle aree metropolitane, i lettori sfiorano il 50%, mentre nei comuni al di sotto dei 2000 abitanti si fermano al 35,6%. Un dato meno scontato, però, e forse sorprendente, è quello dei lettori “forti”, ovvero coloro che leggono almeno 12 libri l’anno, la cui porzione più ampia (18,1%) si trova proprio nei comuni fino a 2000 abitanti, a fronte di un 16,9% delle città centro delle aree metropolitane. Nei piccoli paesi, dunque, i lettori sono molti meno, ma leggono di più. Si può ipotizzare che questo sia dovuto in parte alla mancanza di offerta culturale alternativa, che invece nelle grandi città abbonda, e che porterebbe coloro che conoscono le soddisfazioni della lettura a preferirle alle altre forme di intrattenimento che, nei piccoli centri, vede solo la concorrenza di internet e smartphone (quando non limitati dal digital divide), ma non quella di cinema, teatro, concerti.
In questo contesto, e con 66 abitanti per kmq, dieci anni fa è nata l’associazione Lìberos. La scrittrice Michela Murgia coinvolse me e altri rappresentanti del mondo del libro in Sardegna col proposito di mettere in rete tutti gli operatori della filiera editoriale pubblici e privati, for profit e non profit, che si riconoscessero in un codice etico basato sul reciproco rispetto e di collaborazione preferenziale.
In un primo momento non ci siamo posti il problema della sostenibilità: ognuno di noi pensava di mettere a disposizione le proprie relazioni e dei ritagli di tempo. A farci fare il salto di qualità è stato il bando “CheFare”, un premio di 100.000 euro per il “miglior progetto culturale ad alto impatto sociale ed economico”, che, richiedendo un modello di sostenibilità, ci ha costretto a ragionare su costi e ricavi, proposta di valore, flussi di cassa e altri concetti banali per gli imprenditori ma spesso lontanissimi dai pensieri delle associazioni culturali. Oltre a questo aspetto, il grande vantaggio di questo bando rispetto alla maggior parte dei bandi pubblici e privati è stato quello di poter decidere come usare i soldi. Con la supervisione di Avanzi, società di consulenza specializzata in innovazione sociale, abbiamo deciso in autonomia su cosa investire. Abbiamo scelto di scommettere sulle persone, e, se dopo dieci anni siamo ancora qui, possiamo ragionevolmente concludere di aver scelto bene.
L’idea di partenza, molto velleitaria, era che ciascun operatore della filiera rinunciasse a un comportamento individualistico che gli dava un vantaggio immediato ma che, andando a danneggiare tutto l’ecosistema librario, nel lungo periodo non lo avrebbe premiato. Alcuni esempi di questi comportamenti sono: l’autopubblicazione, con la quale l’autore dichiara nei fatti di poter fare a meno dell’editore; la vendita diretta dei propri libri da parte degli editori, saltando la figura del libraio; l’acquisto al di fuori del territorio o addirittura online da parte delle biblioteche, che così facendo non sostengono le librerie locali, presidio fondamentale sul territorio, e così via. Premiante invece poteva essere rinunciare a questo vantaggio immediato, preferendo il rispetto del ruolo degli altri operatori e, dunque, promuovendo l’esistenza anche delle altre figure. Lìberos, in questa rete, doveva essere solo il facilitatore della collaborazione fra i diversi soggetti, allo scopo di moltiplicare le attività di promozione della lettura sul territorio con una divisione dei costi e una somma dei pubblici che le rendesse più sostenibili e redditizie per tutti. Doveva inoltre porsi come soggetto mediatore tra la filiera del libro così organizzata e le amministrazioni locali, che avrebbero avuto quindi una proposta culturale di grande qualità e professionalità non raggiungibili con le loro sole forze e competenze. Qualcosa non ha funzionato, perché ad attuare quei comportamenti virtuosi sono stati pochissimi operatori, mentre la maggior parte ha preferito continuare a fare da sé o con i pochi partner con cui aveva sempre collaborato, e perché Lìberos è stato percepito, più che come un facilitatore, come un soggetto prevaricatore e accentratore, da cui tutti si aspettavano qualcosa ma con cui pochi erano disposti a condividere relazioni e visibilità. In breve, poiché la domanda di cultura dei territori era ed è tanta, alla frustrazione per un’idea tanto bella in teoria quanto difficile da realizzare nella pratica, si è accompagnato l’entusiasmo per il numero di Comuni che ci hanno voluto coinvolgere nella programmazione di attività letterarie per le loro comunità. La nostra proposta, dunque, che si compone di autori e autrici nazionali o internazionali e si articola in base alla loro disponibilità a venire in Sardegna a presentare le novità editoriali, non è quindi calata dall’alto, bensì condivisa e arricchita dall’ascolto di ogni singola comunità: temi, generi, date sono concordate col paese ospitante, ovvero con la parte politica ma anche, quando possibile, con chi gestisce la biblioteca.
Queste attività sono riunite sotto un unico cappello, che chiamiamo festival Éntula. Il nome deriva da un verso dell’inno Su patriotu sardu a sos feudatarios, meglio noto come Procurade 'e moderare, composto dal nobile magistrato di Ozieri Francesco Ignazio Mannu durante i moti antifeudali del 1794: “Cando si tenet su bentu est pretzisu bentulare”, quando si leva il vento, bisogna trebbiare. Il verbo si riferisce all’azione di lanciare in aria il grano per separarlo dalla pula, che si compiva appunto quando soffiava il vento. Éntula è l’imperativo di questo verbo, ed è quindi un invito all’azione, a fare la propria parte, a sfruttare l’occasione che è data dal fatto di avere, unica regione in Italia, una realtà come Lìberos che, proprio come il vento, può aiutare solo chi ci mette del suo.
Éntula è in realtà un antifestival, complementare, non contrapposto, ai festival tradizionali, poiché non si concentra in un solo luogo per pochi giorni, ma intende estendere l'offerta culturale nel tempo e nello spazio, fino a farla diventare onnipervasiva e ordinaria. Questa scelta nasce dall’esigenza di redistribuirla - poiché abbondante nelle città ma per ovvi motivi molto esigua nei centri piccoli e difficilmente raggiungibili - e dalla consapevolezza che a partecipare ai festival letterari tradizionali siano in larga parte persone che già leggono, e che leggono tanto. Coloro, cioè, che sono già convertiti alla lettura, che devono comunque essere tenuti in considerazione nelle attività di promozione, ma che non sono sicuramente il nostro target principale. Per questo riteniamo più importante, anche se più faticoso, raggiungere le piccole comunità, dove l’incontro con un autore non è una tra le centinaia di attività possibili all’interno delle quali chi non ha la passione per la lettura può scegliere, bensì l’unico diversivo all’ennesimo pomeriggio passato davanti alla tv o al bar. Per questo, a parità di libro presentato, il pubblico che troviamo nei piccoli paesi è spesso più numeroso che nelle città capoluogo. Non lo è mai abbastanza, però, quindi continuiamo a interrogarci su come coinvolgere sempre più persone, e da 4 anni a questa parte distribuiamo ai partecipanti un questionario in cui chiediamo, oltre a età, genere, abitudini di lettura, la provenienza, la motivazione alla partecipazione e il canale grazie al quale sono venuti a conoscenza dell’evento. Chiediamo anche suggerimenti per migliorare le attività, indirizzo e-mail e città di residenza qualora volessero essere informati degli eventi successivi. Al 97% di coloro che hanno risposto piace leggere, e il 55% dichiara di leggere più di 10 libri l’anno. È evidente quindi che la nostra opera di “evangelizzazione” libraria non si può fermare qui. Chi non legge, infatti, raramente partecipa a un evento letterario, e se lo fa è perché “costretto dalla moglie”, come scrive qualcuno nel questionario, o dal sindaco. C’è ancora, evidentemente, più di una barriera all’accesso a questo tipo di iniziative, e la più dura da scalfire è, a nostro avviso, quella psicologica: la convinzione, cioè, che si tratti di eventi per persone colte, o per lettori fortissimi, da cui quindi chi non legge si tiene alla larga. Come abbattere questa barriera è una delle sfide dei prossimi anni.
Lìberos ha appena compiuto dieci anni, il festival Éntula è alla sua decima edizione, pertanto i tempi sono maturi per fare un bilancio: in dieci anni, abbiamo ospitato 355 autori, presentato 524 libri, in 173 località, in 1315 eventi.
Oggi Lìberos dà lavoro (precario, per i motivi di cui parleremo tra poco) a 5 persone, e attiva ogni anno decine di microcollaborazioni, tra fotografi, presentatori, interpreti, tecnici e altre figure professionali di supporto.
Per questo, dieci anni dopo, possiamo dire che il modello di sostenibilità adottato funziona.
Chi è che fa promozione della lettura?
Al di fuori della scuola, la lettura si promuove per lo più con presentazioni di libri, incontri con gli autori, festival letterari.
Chi li organizza? Una molteplicità di soggetti, tra cui le librerie (privati for profit), gli stessi editori o autori (privati for profit), le biblioteche (pubbliche non profit), le associazioni (private non profit). Direttamente collegato col CHI organizza gli eventi letterari è il PERCHÉ, e dal PERCHÉ discende il COME. Editori, scrittori e librerie hanno ovviamente l’obiettivo di vendere libri. Non è necessario difendere la liceità di questo obiettivo in questa sede, ma purtroppo lo è in altre: scuole in cui si pretende di far incontrare gli autori ai ragazzi senza che si possa nemmeno accennare al fatto che i libri andrebbero comprati, per esempio. Oppure, bandi pubblici che assegnano contributi alle attività letterarie a patto che a organizzarle non siano soggetti for profit. Pecunia, insomma, olet, quando si tratta della remunerazione del lavoro culturale altrui e quando a giudicare sono dipendenti pubblici dal salario garantito.
Le biblioteche, invece, perché organizzano attività di promozione della lettura? Perché è nella loro missione, naturalmente, e anche perché - in Sardegna - la maggior parte è gestita da cooperative che, nella gara di appalto, si sono impegnate a farle. Avendo però poche o nessuna risorsa, si arrabattano come possono per chiamare tutti gli autori locali disposti a raggiungere la biblioteca senza nulla chiedere, o, peggio, ad assecondare tutte le richieste di presentazione degli autori locali per lo più autopubblicati. In nome della “democraticità” (sic!) della biblioteca, si offre un pulpito agli autori piuttosto che un contenuto di valore ai lettori. Salvo poi sorprendersi se il pubblico di questi eventi è sempre più esiguo.
Poi ci sono le associazioni culturali pure, quelle cioè senza scopo di lucro e con la missione di promuovere la lettura nello statuto e addirittura come ragion d’essere. A queste si aggiungono - ma le terremo distinte - quelle associazioni emanazione di una realtà for profit nate solo per partecipare ai suddetti bandi cui librerie, case editrici e (incredibile dictu!) neanche imprese sociali, che pure sono non profit, possono partecipare. Anche restringendo il campo a queste, bisogna fare dei distinguo: ci sono realtà strutturate, con dipendenti, una continuità e una riconoscibilità paragonabili a quelle di un’impresa, e poi ci sono quelle più “leggere”, in cui il lavoro è esclusivamente volontario, o in cui i soci addirittura si quotano per finanziare le attività, che hanno il grosso limite della discontinuità: se nessuno è retribuito per svolgere un’attività, e non ci sono risorse nemmeno per sostenerne i costi vivi, la sua sopravvivenza dipenderà dal tempo, dal denaro e dalla determinazione che i volontari potranno di volta in volta donare. Tuttavia, se non si è più in grado di soddisfare un bisogno latente dopo averlo fatto emergere, l’impatto finale risulta quasi più negativo che positivo, dal momento che va ad alimentare anche la sfiducia e lo scoramento nei beneficiari***.
Perché invece i Comuni (prescindendo dalle loro biblioteche) organizzano eventi letterari? Per promuovere la lettura, al fine di aumentare il capitale umano dei propri amministrati aprendone gli orizzonti, stimolando la riflessione e il dibattito e favorendo una socialità arricchente più che divertente (nel senso etimologico del termine). Questo, nel migliore dei mondi possibili, e talvolta anche in quello reale, come abbiamo avuto modo di verificare in questi anni. Per acquisire visibilità personale o elettorale, o per promuovere il territorio in ottica turistica, più spesso.
Dal perché, come dicevamo, discende il COME. La selezione artistica, la scelta cioè dei libri da presentare, degli autori da invitare e dei temi da trattare sarà molto diversa, se diversi sono gli obiettivi che si vogliono raggiungere. Ecco perché nelle rassegne letterarie sempre più spesso accade di vedere sfilare cantanti, calciatori, personaggi televisivi e influencer (tutti autori di libri, intendiamoci) più che “semplici” scrittori. Non solo: se a organizzare l’incontro sono persone che non hanno una professionalità specifica, avendo fatto per tutta la vita altri lavori ed essendo semplicemente appassionati di buona volontà, come spesso accade per eroici amministratori locali, il risultato è spesso quello delle cose “fatte in casa”: si sceglie la sala conferenze appena ristrutturata, con un enorme tavolo che separa gli oratori dal pubblico, si fissa l’ora in modo da non ricadere al di fuori del servizio del bibliotecario o dell’usciere (e pazienza se anche i presunti partecipanti sono impegnati col proprio, di servizio); la locandina si fa con Paint, a presentare il libro si chiama l’insegnante in pensione orfano di una classe da indottrinare, a leggere dei brani, la nipote di chi organizza, però senza microfono (serviva un microfono?), le foto dell’evento le farà un altro parente col cellulare, la sala non sarà riscaldata, in inverno, o il pubblico avrà il sole in faccia, in estate; l’autore arriverà con delle copie del libro, perché nessuna libreria sarà stata coinvolta, e comunque tanto non le avrebbe avute perché l’autore è un anziano del paese che ha scritto le proprie memorie, stampandole a proprie spese, o una quindicenne che ha già scritto sei libri su Wattpad però resta umile. Chiediamoci ora se possiamo davvero biasimare chi, dopo aver vissuto un’esperienza siffatta, al successivo invito alla presentazione di un libro si fingerà morto.
E i festival letterari chi li organizza? Chiunque. In Sardegna, nostro campo di osservazione, organizzano festival letterari, oltre ai soggetti già menzionati, compagnie di teatro, pro loco, diocesi… realtà cioè non specializzate, non esperte della materia quando non, evidentemente, esperte in tutt’altro. Questa molteplicità di soggetti organizzatori, se da un lato contribuisce a rendere l’offerta al pubblico varia e diffusa, facendo sì che la nostra regione possa vantare un rapporto festival letterari/popolazione che non ci risulta abbia confronti in altre regioni, dall’altro genera l’equivoco - nel pubblico come nel decisore politico destinatore dei fondi di sostegno alla pubblica lettura - che 1 valga 1. Che non importa se a organizzare una rassegna è una realtà specializzata nel settore e con le professionalità che si richiedono per fare una proposta di livello oppure una che con la lettura non ha nulla a che vedere e per la quale la presentazione di un libro diventa il semplice contorno di un palinsesto dove a fare la parte del leone non sono gli scrittori ma attori o musicisti.
Di fondo, dunque, la proliferazione e la varietà di iniziative di promozione della lettura sono sicuramente un fatto positivo, che però si trascina dietro anche conseguenze negative: il fatto che non ci sia un albo, un “titolo” di operatore culturale, ma che chiunque possa autoproclamarsi tale, rende difficile sia per la committenza sia per il pubblico distinguere i professionisti dagli appassionati.
***Si legga in proposito l’articolo di Bertram Niessen L’associazionismo che ci frena.
Cosa significa dunque “stare sul mercato” per chi fa promozione della lettura con l’approccio di un’impresa culturale? Solo due cose: organizzare eventi con ospiti abbastanza pop da poter chiedere il pagamento di un biglietto al pubblico (a meno che non si ricevano contributi pubblici che lo vietano espressamente), oppure assecondare la committenza che, come detto, è in larga parte interessata a queste attività più come funzionali ad altri scopi che a quello della promozione della lettura.
Chi può, quindi, permettersi di perseguire il puro scopo dell’aumento del capitale umano? La chimera del capitale privato spinto da puro mecenatismo è, in questa regione, una pia illusione. Se la crescita culturale dei cittadini è nell’interesse dello Stato (inteso qui anche e soprattutto nelle sue emanazioni locali), perché ad essa si accompagnano partecipazione, consapevolezza, rispetto della cosa pubblica e, non dimentichiamolo, crescita economica, allora chi deve farsene carico può essere solo quello stesso Stato che finanzia istruzione, ricerca e sanità: servizi essenziali che non possono e non devono (o non dovrebbero) sottostare a logiche di mercato.
Come vengono impiegate al momento le risorse per i progetti di promozione della lettura? Con bandi di varia trasparenza, e, anche nella migliore delle ipotesi, con un controllo che insiste più sulla correttezza formale delle spese e delle rendicontazioni che sulle attività effettivamente svolte e l’impatto realmente generato.
Alcuni grossi limiti del “bandismo”, cioè del fatto di dipendere, per il perseguimento dei propri scopi statutari, dai bandi (pubblici o privati), risiedono nelle modalità di finanziamento: i bandi finanziano solo i costi vivi delle attività, cioè quelli diretti, ovvero direttamente imputabili allo svolgimento delle attività di progetto. I costi indiretti sono invece ammissibili solo in minima percentuale. Tuttavia, tra i costi indiretti figurano quelli relativi al personale assunto stabilmente, mentre tra quelli diretti possono rientrare quelli relativi al costo del personale assunto con contratti specifici per il progetto, quindi a tempo. Questo condanna de facto i lavoratori culturali al precariato: li si può pagare solo di progetto in progetto. Se a ciò si aggiunge il fatto che questi lavoratori culturali sono in larghissima parte lavoratrici, lascio a chi legge di immaginare come tutto questo mal si concilii con eventuali gravidanze. Non ci si può sorprendere, dunque, se le migliori professionalità, a un certo punto della loro vita, o più semplicemente appena ne hanno la possibilità, lasciano lo stimolante ma precario e sottopagato lavoro culturale in favore di un più grigio ma sicuro posto fisso. Le imprese culturali, pertanto, non sono attrattive per i lavoratori più preparati, con conseguenze sulla qualità generale del lavoro dell’organizzazione. Si potrebbe ritenere che in fondo questo non sia un gran problema, e che, non pilotando aerei e non operando a cuore aperto, chiunque abbia la “passione” possa svolgere un lavoro culturale senza fare grossi danni. Oppure, possiamo convenire sull’importanza dell’impatto del nostro lavoro e pretendere che sia fatto nel modo migliore e dalle migliori maestranze possibili. Altro limite, già evidenziato da altri prima e meglio di me, è la necessità per queste realtà di aderire, volta per volta, al bando del momento, e quindi cercare di piegare le proprie attività alla richiesta dell’ente erogatore (e dunque ecco che attori di teatro o musicisti si improvvisano curatori di festival letterari, nonostante il loro interesse ricada in un altro settore culturale) e riservare il perseguimento della propria missione alle pieghe che i vari bandi lasciano indefinite. Inoltre, mentre sono tanti i bandi che finanziano “progetti innovativi”, preferibilmente “digitali”, qualunque cosa voglia dire, poche sono le misure di sostegno a progetti esistenti e che hanno già dimostrato di avere un impatto. Si finanziano cioè decine di prototipi che sono destinati a rimanere tali, perché la pretesa che un buon progetto, che ha un reale impatto sui beneficiari, sia anche capace di “stare sul mercato” è semplice ipocrisia.
Ultimo, il sistema di controllo, che, figlio di un pregiudizio che vede gli enti non profit come clientes cui elargire un’elemosina o, peggio, come furbetti che si appropriano indebitamente di soldi pubblici, anziché insistere sulla qualità del lavoro svolto (di pubblica utilità, non dimentichiamo), si concentra sulla spesa di ogni singolo euro. Esemplare, in questo senso, l’Ente che ritiene un costo ammissibile la cena dell’ospite, ma non quella dell’organizzatore, il quale quindi, nella fantasia del burocrate, dovrebbe accompagnare l’ospite davanti al ristorante e dirgli “ecco, puoi cenare qui da solo, io passo dopo a pagare”, oppure, grato del privilegio di fare un lavoro culturale, pagarsi di tasca propria una cena che è, essa stessa, lavoro. Alle imprese che costruiscono scuole, ponti e strade non si chiede quanto abbiano pagato il cemento o l’ingegnere, ma “solo” che le loro opere siano fatte a regola d’arte, e si sa che la cifra che riceveranno, oltre a coprire queste spese, dovrà avere un margine, un utile, con cui pagare i costi indiretti di cui sopra (tasse, servizi e il lavoro dell’imprenditore, oltre ai dipendenti). A chi organizza attività culturali, invece, si dice come deve spendere i soldi che riceve, si chiede di dimostrare come li ha spesi, per poi erogare un contributo che non copre neanche il 100% del costo del progetto. Quanto sarebbe diverso, il nostro lavoro, se fossimo valutati sulla qualità del nostro operato, sull’impatto delle nostre attività, piuttosto che sulla proporzione aurea tra costi vivi e spese generali? Quanto tempo ed energie, ora assorbite da rendicontazioni bizantine, si libererebbero, da destinare al perseguimento della nostra missione?
Quando parliamo di Lìberos parliamo di innovazione sociale, e non di innovazione culturale, perché il nostro agire non ha l’obiettivo di smantellare e ridisegnare la produzione o la diffusione del prodotto culturale di cui ci occupiamo, il libro (del quale anzi rivendichiamo la complessità di filiera da cui la qualità non può prescindere), bensì di scardinare modelli e comportamenti competitivi e miopi che ne limitano le possibilità, confinando chi scrive e chi legge in una riserva indiana, protetta finché non pretende di esondare, di permeare l’intera società. Finché questo non accadrà, finché l’innovazione cioè non diventerà strutturale, e la straordinarietà del modello lìberos ordinaria, dovremo continuare a dissodare il terreno con le mani, con l’ottimismo della volontà, oltre il pessimismo della regione.
Francesca Casula, cofondatrice e coordinatrice di Lìberos
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