Lìberos

Sicuri che non esistano più le stroncature? Christian Raimo ne ha scritta una su Gianrico Carofiglio

Pubblicato il 05-07-2012

Fa fatica pensare di uno scrittore – che viene considerato uno scrittore tale da poterlo candidare allo Strega e con cui ho rapporti anche amichevoli – che invece sia un non-scrittore, o almeno uno scrittore di non-letteratura. Però poi uno si scontra con il fatto abbastanza incontrovertibile che Il silenzio dell’onda di Gianrico Carofiglio è un libro sostanzialmente brutto, o talmente mal riuscito da essere brutto. Non perché costruito male, o quantomeno non perché costruito così male, ma perché scritto proprio male. Abbandonato il genere e gli scritti d’occasione (il Contromano Laterza su Bari, il saggio sempre Rizzoli sulla Manomissione delle parole), Carofiglio confeziona un testo superintimista, esiguamente narrativo, che ha l’ambizione di descrivere i grandi cambiamenti dell’anima con molte parole lapidarie e piccoli spostamenti dei corpi, ma che pagina dopo pagina cicca quasi completamente le sue ambizioni letterarie.

 

La struttura del Silenzio dell’onda è quella di una quarantina di microcapitoli, trenta dei quali sono dedicati al tentativo di Roberto, un maresciallo dei carabinieri in malattia, di riprendere possesso della sua vita scombiccherata dopo che – ci viene detto – a un certo punto qualcosa è andato storto. Traumi, buchi neri. Ora lo vediamo spingersi faticosamente per una Roma alienata, ancorato agli psicofarmaci che prende e alle due sedute settimanali dall’analista in uno studio che diventa da subito la scena dove si svolge gran parte della (non) azione. I restanti dieci capitoli sono pagine semidiaristiche di un ragazzino, Giacomo, di cui all’inizio non sappiamo che c’entri con la storia di Roberto, e che, buono e sagace come pochi, è turbato per quello che sta succedendo a scuola sua da una parte, a sé dall’altra: una ragazza è importunata da certi brutti ceffi suoi coetanei, lui un po’ si sta innamorando di questa ragazza. Gli altri personaggi sono appunto lo psicanalista (il Dottore), una paziente del Dottore (Emma), che Roberto conosce per caso (immaginate come… esatto, a lei non parte la macchina e lui l’aiuta) e di cui fatalmente s’invaghisce un po’, e – chiamiamolo così – il Passato. Il Passato, ovvero la lunga oscura storia dolorosa che ha ridotto Roberto e Emma come due reduci, che parlano come se avessero in bocca degli oroscopi.

Se prendiamo questi come elementi, l’intreccio c’è; minimo ma c’è. Tutti gli stereotipi della nostra società depressiva sono rispettati: poliziotti buoni che si sono dovuti comportare male, donne che non volevano ma hanno tradito il marito, ragazzini senza educazione che si ritrovano a filmare le compagne nude… Quello che manca è tutto il resto di cui uno vorrebbe conto quando compra un libro.

Ossia? Dialoghi scritti diversamente da questo, per esempio:

“Non ho molto tempo ma forse per un aperitivo ce la farei. Dovremmo vederci dalle mie parti”.
“Certo. Tu mi dici quali sono le tue parti e io ci vengo”.
“Io sto a via Panisperna. Potremmo vederci a Santa Maria dei Monti, c’è un bar con i tavolini all’aperto… oggi fa quasi caldo, magari possiamo stare fuori”.
Roberto non rispose. Santa Maria dei Monti era a non più di duecento metri da casa sua.
“Ehi, sei ancora lì?”
“No, cioè sì, scusa mi era passata una cosa per la testa – mi capita – e mi sono distratto. Santa Maria va benissimo, conosco il bar. A che ora ci vediamo?”
“Magari sei lontano ed è un problema arrivare fino a Monti, ma io non posso allontanarmi, mi dispiace”.
“Monti non è proprio un problema per me. Facciamo alle otto?”
“Sì, alle otto va bene”, e poi, dopo una breve esitazione: “Scusami…”
“Sì?”
“Ti avverto che sto per fare una figuraccia, ma io non ascolto mai i nomi quando faccio la conoscenza di qualcuno…”
“Neanch’io”.
“…e non ho sentito il tuo. Scusami”.
“Roberto”.
“Roberto. Anche tu, però. Potresti scriverlo il nome vicino al numero di telefono. Così mi avresti risparmiato l’imbarazzo di chiedertelo”
“Hai ragione, colpa mia. Stasera ti declino le mie generalità complete e ti lascio anche una fotocopia del documento, per ogni evenienza”.
Risata.
“Buona idea, così controllo se sei veramente un carabiniere. Allora, a stasera”.
“Alle otto”.

Vorrebbe una Roma diversa da una fotocopia di una cartolina, come quella che viene delineata in una scena-clou in un cui Roberto si fa portare in giro da un autista simpatico da cui si fa raccontare un aneddoto su Vacanze romane, un altro su C’eravamo tanto amati; e diversa dalla Roma nemmeno cartolinizzata ma circoscritta a dieci isolati tra Piazza Fiume e Largo Argentina, dove c’è la libreria dove Roberto va a comprare per la prima volta in vita sua un libro.

Già, c’è anche tutta questo parlare di arte & letteratura tra il carabiniere in congedo Roberto e l’ex-attrice Emma come se stessero addentrandosi dentro un Arcano, mentre tutto quello che li lega finisce inesorabilmente nella previdibilità. (A partire dal cd che si scambiano all’inizio, I’m a bird now di Antony and the Jonhsons, che fa pensare all’inizio a un altro libro – decisamente più bello sull’amore adulto – ossia Covacich, Prima di sparire, dove i protagonisti anche loro all’inizio vanno al concerto di Antony and the Johnson insieme) per passare ai discorsi su Shakespeare, sulle serie tv, messi in pagina in un modo che sembrano appuntati dopo essere stati origliati dai vicini di aperitivo. Allo stesso modo anche Giacomo è l’adolescente che esattamente ti aspetti: un ragazzo “adolescentizzato” secondo canoni di quasi-ovvietà, sensibile e solitario, anche lui con un’idea feticcio della letteratura:

Leggere è probabilmente la cosa che mi piace di più, e se vengo proprio costretto a rispondere alla domanda su cosa vorrei fare da grande, dico che voglio fare lo scrittore. Anzi, a dire le verità, mi piacerebbe farlo anche prima di diventare grande. Il mio modello è Christopher Paolini: lui ha cominciato a scrivere il suo primo romanzo – che ho letto due volte – a quindici anni.

E poi ci sono le onde del Pacifico dove surfare e la California, luoghi dell’anima per Roberto che c’ha passato una gioventù incantata e che vengono rievocati e descritti come un calco di pagine di Don Winslow. Didascaleggiando, istituendo una metafora talmente elementare che quando uno arriva al finale, se lo potrebbe scrivere da sé tanto è atteso.

Insomma, la prevedibilità del Silenzio dell’onda sembra dovuta alla capacità di Carofiglio di creare un soggetto abbastanza funzionante alla tessitura di una trama standard, fictionesca senza supportarla con un’altrettale capacità di invenzione e costruzione dei personaggi, che vivono in una condizione molto contemporanea: quella della vittima. Vittime del destino, vittime di sé, questi protagnisti loro malgrado si trovano sempre dalla parte del bene, agiscono perché costretti dalla situazione, dal proprio carattere, dalla banalità della loro funzione narrativa.

E allora l’impressione che si ha è che questo sbilanciamento, questa “questione morale” intrinseca, che il narratore Carofiglio deve mettere in scena è quella che tocca agli scrittori che hanno anche un ruolo anche politico. (Carofiglio è un magistrato in congedo, ora parlamentare del Pd). Ossia un pudore che costa caro a chi scrive: quello di non poter attraversare il male se non per arrivare a stigmatizzarlo. Per dire: se Roberto è un personaggio che di se stesso dice di avere una doppia personalità, vediamo che però il suo lato oscuro finisce per esprimersi in una scenata fatta allo psicanalista, in una scaltra presa per il culo di un criminale, in un grande peccato di cui si è macchiato ma in fondo non per colpa sua. La domanda è: Roberto poteva essere anche uno stronzo? Poteva avere in sé qualche piccola perversione? Poteva godere dell’essere un bugiardo (ha lavorato per anni come infiltrato) e non trovarla una condizione obbligata e subita? Poteva contenere in sé veramente un’ambiguità? E domande simili ce le si può fare sugli altri personaggi. Emma, il Dottore, Giacomo… È come se non potessero essere altro che così, in fondo buoni, magari imbrigliati nelle loro paure, di crescere, di concedersi una possibilità, ma sostanzialmente buoni. Dall’altra parte ci sono i criminali: gli spacciatori che Roberto arresta e i brutti adolescenti che Giacomo conosce. Il mondo limpido e manicheo. Come, forse giustamente, quello di una persona che fa il magistrato o il politico.

Dopo aver faticato moltissimo a finire un cosiddetto romanzo che si legge in un paio di pomeriggi – non è un complimento -, viene da chiedersi perché il gruppo Rizzoli abbia deciso di candidare questo libro così debole, mentre quest’anno aveva pubblicato libri molto più interessanti tipo Resistere non serve a niente di Walter Siti, La cospirazione delle colombe di Vincenzo Latronico, Ivan il terribile di Alcìde Pierantozzi…
Certo, vero è che già l’anno scorso, con Storia della mia gente, un libro altrettanto debole e ancor più wannabe edificante di un scrittore talentuoso come Edoardo Nesi – che aveva deciso di punto in bianco di mettere da parte la sua qualità letteraria quasi unica in Italia, quella di mimesi nei confronti del mondo della borghesia riccastra, cafona, arrivista, intrallazzona, velleitaria (leggete lo splendido Figli delle stelle e il notevole L’eta dell’oro) per ingaggiare il ruolo dell’intellettuale engagé pontificante – aveva sbaragliato la concorrenza.
Forse la verità è che alle volte sembra che oggi molti lettori non siano interessati a conoscere la natura umana, ma la sua versione ridotta: sociologica, scolastica, da happy hour.

(Questo commento lo ha scritto lo scrittore Christian Raimo su Minima et Moralia, il blog della casa editrice Minimum Fax, che aderisce a Lìberos. Il libro di Carofiglio a te invece è piaciuto? Scrivi un commento e spiega perchè.)

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