Pubblicato il 03-08-2012
Annalisa Ferruzzi è insegnante e scrittrice. Ha pubblicato per Aìsara i romanzi Ineffabili teste d'uovo e Le tre scimmiette.
Kitchen, di Banana Yoshimoto: quando, dopo circa venti pagine, ti sorprendi a incoraggiare l'autrice: dai che ce la fai, ce la puoi fare, dimmi qualcosa di più, famme capi', e dopo altre trenta di sommesso deserto (avete presente la voce della cantante Carla Bruni?), decidi di togliertelo proprio dalla vista.
L'alchimista, di Paulo Coelho: se manco ti ricordi il più piccolo guizzo di alchimia suscitato dall'ispirato autore, hai la conferma che di "visione" ci sia soltanto quella di un solido futuro economico (per lui).
Memorie di Adriano, di Marguerite Yourcenar. Al grido: "capolavoro! capolavoro!" di amici e conoscenti mi sono precipitata a comprarlo. Dopo vari zoppcanti leggi e molla, molla e leggi, ho ceduto le armi e l'ho riposto nella libreria con un filino di senso di colpa: bella scrittura, argomento interessante... e allora perché mi ci addormento sopra?
Il petalo giallo, di Bors Pahor. Storia di un anziano che si innamora di una giovane, le persecuzioni naziste da entrambi subìte in maniera differente sono il collante (pretesto) della vicenda amorosa. Il tutto appiccicato male. Comodamente scagliabile.
Pinocchio, di Collodi. Letto da bambina con un senso di malessere: un burattino, trattato appunto da burattino, al quale fai subire un'odissea come se burattino non fosse ma umano e al quale, alla fine, dai come premio-bontà la carne e le ossa. Sadico?
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