Lìberos

“Com’è elementare la vita quando la semplifichiamo con l’amore”  

Pubblicato il 29-04-2015

Remare contro corrente è un rischio, ma D’Avenia sa come affrontarlo.

Ecco in estrema sintesi la sensazione, assolutamente positiva, che innanzitutto mi resta attaccata non appena termino di leggere questo terzo romanzo di Alessandro D’Avenia, autore bravo e coraggioso.

 

Questo insegnante appassionato, scrittore di Bianca come il latte e rossa come il sangue (2010) e Cose che nessuno sa (2011) è riuscito a coinvolgermi come lettore quasi “ingenuo”, cioè libero dal pensiero di chi pensa che il recensore sia bravo quando è un inquisitore. Lasciamo questo compito volentieri ad altri e diciamo solo che siamo contrari all’atteggiamento pregiudiziale di chi frettolosamente tende a classificare la letteratura amata dai ragazzi in uno scaffale “inferiore” ad altri. Chissà se è un problema per D’Avenia? Per me no. Nella sfera degli “autori” con la A maiuscola, per quello che può valere il mio giudizio, lui può starci, e non perché ne ha due di A, una nel nome e l’altra nel cognome, ma perché scrive bene – aspetto per nulla irrilevante – e parla del bene e del male attraverso voci narrative efficaci e coinvolgenti.

Partiamo dal “pretesto” del titolo. Bianca come il latte e rossa come il sangue era un titolo ispirato da una delle fiabe italiane curate da Calvino per l’editore Einaudi: il titolo Ciò che inferno non è, in modo analogo, è altrettanto calviniano. Un autore-guida di D’Avenia? Perché no? Nell’opera dello scrittore si coglie sempre il sostrato dei molti riferimenti culturali che ne strutturano la sua formazione e vanno ben oltre la passione, direi persino scontata, per Calvino.

Comunque, ritorniamo al romanzo. La voce narrativa, molto personale, ci accompagna come un novello Dante, ma adolescente, in viaggio nella selva oscura del famigerato quartiere Brancaccio di Palermo, invece che verso un prestigioso college inglese. La metafora del viaggio funziona peraltro già dal titolo, proprio perché definisce un luogo e il suo contraddittorio, il “non-inferno”. Le città invisibili di Calvino, d’altronde, si chiudono con l’immagine della città come cuore del male, ma dal quale può germinare uno spiraglio.

Il passo è celeberrimo e nella testa di un lettore, soprattutto se insegnante, dovrebbe essere fissato a lettere di fuoco, senza bisogno di alcuna bibliografia:

 

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

 

Io credo che D’Avenia questo passo lo abbia in mente, ma che con autentica originalità lo abbia anche trasformato, fatto proprio, spostando l’attenzione alla realtà della cronaca vissuta, dell’esperienza sul campo e da diversi punti di vista: 1) dell’adolescenza nel momento del suo volgere verso la maturità; 2) dell’infanzia negata o messa a repentaglio da un mondo adulto violento; 3) da parte di un insegnante sui generis, don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia nel 1993 per il suo coraggio di remare contro.

È quanto fa anche D’Avenia nel non avere paura di parlare “spudoratamente” di speranza, verità, bellezza, amore, male e bene ma senza stereotiparne i contorni in modo tranciante, di Dio e di uno sguardo capace di “oltraggio” in senso dantesco: quello dell’andare oltre le maschere, mettendo a nudo corde profonde dell’animo di chiunque, anche dei cosiddetti cattivi.

La recente storia del nostro Novecento è segnata in maniera tragica da delitti di mafia che hanno lasciato orme profonde nella coscienza collettiva del Paese: Falcone, Borsellino, due grandi magistrati, e poi Pino Puglisi, un prete piccolo di statura ma grandissimo di cuore; un cuore che batte fino alla fine dalla parte dei deboli. Quest’uomo, beatificato dalla Chiesa, resta un esempio di chi e di cosa non è inferno.

I meriti di D’Avenia sono molti e ne lascio la scoperta ai suoi lettori, già affezionati oppure in erba, ma uno lo voglio rimarcare con profonda convinzione: è un uomo in grado di far durare e dare spazio al bello e al buono, attraverso – come direbbe il suo Calvino – quello che solo la letteratura può offrire con i suoi mezzi specifici.

Nel cuore del libro il fratello maggiore del protagonista scopre la gioia provata nel fare del bene alleviando la sofferenza altrui. Il protagonista narratore, con la semplicità di un adolescente, riflette ed esprime una frase perfetta: «Com’è elementare la vita quando la semplifichiamo con l’amore».
 

Alessandro D’Avenia, Ciò che inferno non è, Mondadori, Milano 2014, 317 pp., € 19,50.


Chi l'ha scritto?

scriverescrivereFabio Di Pietro insegna materie letterarie e latino presso il liceo classico “Azuni” di Sassari. Docente a contratto in diverse Università e collaboratore in vari progetti di ricerca, si occupa di mediologia della letteratura e sociologia della formazione e dei processi culturali e comunicativi. È autore di saggi e monografie.

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