Pubblicato il 16-06-2019
Uno dei testi nei quali, a mio parere, viene affrontata con il massimo rigore la questione della creatività e vengono enucleate con semplicità ma, insieme, con estrema efficacia le caratteristiche di un pensiero capace di esibirla effettivamente è il libretto di Igor Stravinskij, dal titolo Poetica della musica.
Estremamente significativo ed istruttivo, ad esempio, è il seguente passo, che dovrebbe essere letto, riletto e sottolineato da tutti coloro che ritengono che l’espressione più autentica e genuina della creatività sia l’assenza di vincoli e di regole: “La funzione del creatore è di vagliare gli elementi che ne riceve, perché è necessario che l’attività umana imponga a se stessa i propri limiti. Più l’arte è vagliata, limitata, elaborata, più essa è libera. Per quel che mi riguarda, io provo una specie di terrore quando, al momento di mettermi al lavoro e innanzi alle infinite possibilità che mi si offrono, ho la sensazione che tutto mi sia permesso. Se tutto mi è permesso, il meglio e il peggio, se nulla mi oppone resistenza, ogni sforzo è inconcepibile, io non posso appoggiarmi a nulla e quindi ogni impresa sarebbe vana […]. In arte, come in ogni cosa, si costruisce su un terreno resistente: ciò che non consente appoggio, non consente neanche il movimento.
La mia libertà consiste dunque nel muovermi nel piano limitato che mi son prefisso per ciascuna delle mie imprese.
Dirò di più: la mia liberà sarà tanto più grande e profonda quanto più strettamente limiterò il mio campo d’azione e quanto più numerosi saranno gli ostacoli di cui mi circonderò. Ciò che mi toglie un ostacolo mi toglie una forza. Più ci si impongono delle costrizioni, e più ci si libera di queste catene che impastoiano lo spirito.
Alla voce che mi ordina di creare, rispondo dapprima con sgomento, poi mi rassicuro scegliendo a mie armi le cose che partecipano della creazione ma che sono tuttavia esterne rispetto a essa: e l’arbitrio della costrizione servirà appunto a ottenere il rigore dell’esecuzione”.
Questa acuta riflessione trova piena rispondenza nei presupposti dell’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle), fondato nel 1960 da Raymond Queneau insieme all’amico che gli sarà più vicino negli ultimi anni, il matematico e scacchista François Le Lionnais, felice personalità di sapiente eccentrico dalle inesauribili invenzioni sempre sospese tra razionalità e paradosso, tra esperimento e gioco. Queneau, come ricorda Calvino, che di questo laboratorio fu partecipante assiduo, in polemica con la “scrittura automatica” dei surrealisti scriveva: “un’altra falsissima idea che pure ha corso attualmente è l’equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione: tra caso, automatismo e libertà. Ora questa ispirazione che consiste nell’ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora”.
Ne consegue che “il poeta non è mai ispirato perché padrone di ciò che agli altri appare come ispirazione …. Non è mai ispirato perché conosce non soltanto le forze del linguaggio e dei ritmi, ma anche cosa egli è e di cosa è capace: non è schiavo delle associazioni d’idee …. Sì, duri e lunghi gli sforzi per diventare e per essere un poeta. Voi che pretendete oggi di essere poeti, umiliatevi di fronte a ciò che dovreste essere. Vi è facile e gradevole utilizzare i vostri talenti naturali e restare i soggetti passivi di un’ispirazione cieca che vi conduce. Quando avrete rinunciato a questo lasciarvi andare, quando avrete vinto le debolezze individuali che vengono identificate, a torto, con quel talento poetico, quando avrete padroneggiato questa pretesa ispirazione, allora, e allora soltanto, sarete liberi e potrete avanzare da vincitori verso le forze creative”.
L’autentica espressione della libertà e della creatività dell’artista non è dunque una pretesa ispirazione priva di vincoli e di costrizioni, bensì la struttura, l’insieme delle relazioni interne e delle regole che fanno d’un insieme di parole un testo poetico (ad esempio un sonetto) o letterario (un romanzo). è infatti questa struttura, come esempio di testo costruito secondo regole precise, a spalancare la molteplicità «potenziale» di tutti i testi virtualmente scrivibili secondo quelle regole, e di tutte le letture virtuali di quei testi. Nel metodo dell’«Oulipo» a contare in primo luogo è la qualità di queste regole, la loro ingegnosità ed eleganza. Nell’elogio funebre di Georges Perec, il maggiore esponente di questo gruppo, al quale era stato ammesso nel 1967, apparso con il titolo “Perec, gnomo e cabalista su la Repubblica del 6 marzo 1982, p. 18, Calvino riporta, a titolo d'esempio, particolarmente significativo, l'esperimento di Ulcérations: “Perec parte dal dato statistico che le undici lettere più frequenti nel francese scritto sono quelle che si ritrovano nella parola ulcérations; un ordinatore elettronico gli fornisce tutte le permutazioni possibili di queste undici lettere; da questi anagrammi senza senso Perec pazientemente sceglie quelli che letti uno di seguito all'altro (e introducendo stacchi e punteggiatura), possano formare dei versi liberi dotati d'un senso e d'un ritmo. Ne nasce un libretto di poesie, intitolato appunto Ulcérations che consiste esclusivamente di 399 permutazioni di quelle undici lettere”. Qui una caratteristica interna (il dato statistico menzionato) della materia con la quale il poeta ha a che fare e che deve plasmare (la lingua francese) viene dunque assunta come punto di partenza e matrice costitutiva della struttura dell’opera.
Questa è una grande lezione per il processo di formazione non solo dell’artista o dello scrittore, ma anche della persona umana, e per l’educazione spirituale in generale che, come ha scritto Hegel, “producono nell’uomo questa opposizione che lo rende anfibio in quanto egli deve vivere in due mondi che si contraddicono l’un l’altro, cosicché anche la coscienza erra in questa contraddizione e, sballottata da un lato all’altro, è incapace di trovare per sé soddisfazione nell’uno o nell’altro. Infatti, da un lato noi vediamo l’uomo prigioniero della realtà comune e della temporalità terrena, oppresso dal bisogno e dalla necessità, angustiato dalla natura, impigliato dalla materia, in fini sensibili e nel loro godimento, dominato e lacerato da impulsi naturali e da passioni, dall’altro egli si eleva a idee eterne, a un regno del pensiero e della libertà, si dà come volontà leggi e determinazioni universali, spoglia il mondo della sua animata, fiorente realtà e la risolve in astrazioni, in quanto lo spirito fa valere il suo diritto e la sua dignità solo nell’interdire e maltrattare la natura, a cui restituisce quella necessità e violenza che ha subìto da essa”.
Questa sua natura anfibia pone l’uomo di fronte alla costante esigenza di raggiungere e mantenere un equilibrio attivo e dinamico con il mondo in cui si vive, anche se non è facile, evitando di cadere, da un lato, nella tentazione di restare al di sopra della realtà, con l'utopia, dall'altro, al di sotto, con la rassegnazione. Quanto sia ardua questa sfida lo dimostra quella che Hegel considerava la malattia di certe manifestazioni di utopia romantica, l'ipocondria, quell'alternanza di fasi di furore progettuale e di esaltazione e di fasi di depressione e di rinuncia che, a suo giudizio, colpisce tutti coloro che, per non volere fare i conti con la "riottosa estraneità" del mondo, con la sua "burbera ritrosia", che si concede solo a chi sa dominarlo effettivamente, pretendono di saltare oltre la realtà, di proiettarsi nell'ideale e nel possibile senza passare attraverso il tempo presente e lo spazio in cui, di fatto, si svolge la loro esistenza quotidiana. Costoro considerano l'ideale a portata di mano e s'impegnano, di conseguenza, in una frenetica e febbrile attività per realizzarlo: salvo poi concludere, dopo ripetuti e inevitabili fallimenti, che esso è irraggiungibile e sprofondare, di conseguenza, nell'inerzia più totale e nella depressione. Per evitare di cadere in uno di questi estremi l’uomo deve dunque saper contemperare e armonizzare, come ci ha insegnato anche Calvino nelle Lezioni americane, senso della realtà e senso della possibilità, rispetto dei vincoli e apertura a tutte le opportunità che essi consentono di esplorare e vagliare.
Il bel libro di Paola Dubini Con la cultura non si mangia” Falso! parte idealmente da qui facendo propria la lezione che ci è stata lasciata in eredità da David Foster Wallace nel discorso, intitolato Questa è l’acqua, che egli tenne il 21 maggio del 2005, due anni prima di suicidarsi in seguito alla grave depressione da cui era affetto, ai laureati di quell’anno del Kenyon college. Il titolo fa riferimento a al piccolo “apologo istruttivo” con il quale lo scrittore apre il suo dialogo con gli studenti: “Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice ‘Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?’ I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede ‘ma cosa diavolo è l’acqua?’”.
Questo breve intervento è una delle migliori definizioni dell’arte di «imparare a pensare» di cui possiamo disporre. Ci dice che per apprendere quest’arte occorre, in primo luogo, imparare a vedere, acquisendo la consapevolezza che “spesso le più ovvie e importanti realtà sono quelle più difficili da vedere e di cui parlare”; e poi che bisogna riuscire “lentamente a capire che […] ‘imparare a pensare’ vuol dire in effetti imparare a esercitare un qualche controllo su come e cosa pensi. Significa anche essere abbastanza consapevoli e coscienti per scegliere a cosa prestare attenzione e come dare un senso all’esperienza”.
Questi sono i due presupposti per comprendere cosa vuol dire “essere istruiti” e “come si pensa”. “L’alternativa”, dice Wallace concludendo il suo discorso, “è l’incoscienza, la configurazione di base, la corsa al successo, il senso costante e lancinante di aver avuto, e perso, qualcosa di infinito. La Verità con la V maiuscola è sulla vita PRIMA della morte. È sul valore reale di una vera istruzione, che non ha quasi nulla a che spartire con la conoscenza e molto a che fare con la semplice consapevolezza, consapevolezza di cosa è reale ed essenziale, ben nascosto, ma in piena vista davanti a noi, in ogni momento, per cui non dobbiamo smettere di ricordarci più e più volte: ‘Questa è acqua, questa è acqua’”.
Come si diceva Paola Dubini con il suo libro si riferisce esplicitamente a questo insegnamento e si augura che le sue pagine inducano il lettore a cambiare prospettiva e ad acquisire innanzitutto consapevolezza di ciò che è così reale ed essenziale, così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti. Altrimenti si è condannati a fare la fine di Gurdulù, quel personaggio che Calvino ha descritto con straordinaria efficacia nel suo romanzo breve Il cavaliere inesistente, una persona che c’è ma non sa di esserci, non ne ha consapevolezza, perché si appiattisce nell’ambiente in cui si trova inserito e s’immedesima completamente in esso, al punto da perdere ogni cognizione non solo della propria identità, ma anche del contesto in cui è immerso. Se ad esempio butta in acqua la rete e vede un pesce che è lì lì per entrarci, si compenetra tanto in quel pesce che si tuffa in acqua e nella rete entra lui. È l’emblema di chi viene sopraffatto dalla realtà che lo circonda ed è incapace di afferrarla proprio perché non riesce a distinguersi da essa, a distaccarsene e a valutarla criticamente.
Ecco allora l’insegnamento, in perfetta sintonia con le considerazioni di Stravinskij e dell’«Oulipo» dalle quali siamo partiti, che possiamo trarre dalla lezione di Wallace facendo convergere i due presupposti su cui, a suo giudizio, poggia la capacità di imparare a pensare: “l’inimmaginabile non è gestibile e non è controllabile”, per cui è destinato inevitabilmente a diventare non un ausilio e un sostegno, bensì un ostacolo all’efficace dispiegarsi del pensiero creativo.
Che cos’è, si chiede allora Paola Dubini facendo propria questa lezione, che ci riesce così arduo immaginare, e non da oggi, ma da sempre, ostacolati come siamo da luoghi comuni che affondano le proprie radici nel passato anche remoto? Un esempio significativo di questa difficoltà è la diffusa e radicata incapacità di portare a unità tre aspetti determinanti e imprescindibili per capire che cosa sia la cultura: bellezza, significato e processi produttivi e di consumo.
Per capire come andrebbe impostata correttamente la relazione tra questi tre aspetti riferiamoci al “nodo borromeo”, una figura tratta dalla topologia dei nodi, costituita da tre anelli che hanno una proprietà importante: sono legati fra loro, benché non lo siano a coppie. Più precisamente, rimuovendo uno qualsiasi dei tre anelli, i due anelli rimanenti risultano sciolti, benché i tre insieme non lo siano.
Dunque, per ritornare al nostro discorso, la dimensione economica e il vincolo di funzionamento che ne deriva, ai quali si riferisce Paola Dubini per analizzare la cultura e i suoi processi, non sono affatto in contrasto con l’idea della cultura medesima come immaginazione, creatività ed esplorazione di possibilità sempre nuove, ma sono del tutto compatibili con essa, anzi costituiscono un presupposto e una condizione imprescindibile per poterne parlare in termini concreti e controllabili e, soprattutto, tenendo presente un obiettivo fondamentale, che chi ama e apprezza veramente la cultura non può evitare di considerare, quello di trovare i modi per liberare risorse al fine di riuscire a metterne sempre più a sua disposizione.
Questo approccio, oltre ai meriti già evidenziati, ha anche quello di mettere a nudo i limiti e le distorsioni di una metafora infelice: quella che assimila la cultura ai giacimenti petroliferi per sottolineare il fatto che possiamo estrarne valore. Se il riferimento a questa finalità è corretto, sbagliato è invece il paragone con una risorsa, come il petrolio, destinata ad esaurirsi, mentre il patrimonio culturale per definizione si arricchisce e cresce continuamente. La cultura è rinnovabile, per questo non la possiamo considerare una rendita di posizione sulla quale adagiarsi e della quale fregiarsi. Si tratta invece di un patrimonio che dobbiamo impegnarci ad accrescere e a rendere sempre più prezioso: “le espressioni immateriali della cultura”, scrive l’autrice, “come tutte le risorse immateriali, non soggiacciono alle stesse regole di finitezza delle risorse materiali. Le risorse hanno tanto più valore quanto più sono rare ed uniche: è indubbio che la rarità, l’unicità siano caratteri che distinguono le risorse culturali del nostro paese”.
Sono proprio questa rarità e unicità a fare, non a caso, della cultura e dei suoi prodotti e processi il nuovo status symbol per l’1% più ricco della popolazione statunitense, che spende sempre più in questo campo, riconoscendo in esso il più autentico ed efficace elemento di distinzione, al contrario di chi, come lo strato della popolazione medio-alto, continua a legare l’esibizione della propria condizione privilegiata al possesso di beni esclusivi, come macchine d lusso, orologi raffinati, gioielli e cose simili.
Se la politica non riesce a rendersi conto di questa opportunità e a coglierla, ma alimenta al contrario l’idea che con la cultura non si mangia, è perché l’investimento in questo campo, come in quello dell’istruzione in generale, ha costi immediati e benefici differiti nel tempo, caratteristica che lo rende poco appetibile agli occhi di interpreti della politica come tattica, orientata al breve periodo, anziché come strategia e progetto di media e lunga durata. È proprio questo orientamento catastrofico all’immediatezza a snaturare la cultura, facendone uno strumento per acquisire e gestire il consenso, anziché per fare cittadinanza e comunità, apprezzandone ed esaltandone il valore più prezioso che la contraddistingue, quello di relazione, di cui abbiamo assoluta necessità per esistere come individui e come persone che appartengono a comunità e società, e che ne fa per questo qualcosa di assimilabile all’aria, di cui abbiamo bisogno per respirare, o all’acqua, così in bella vista sotto gli occhi di tutti e proprio per questo nascosta agli occhi dei pesci che si muovono in essa inconsapevolmente, di cui parlava Wallace.
L’altro criterio imprescindibile al quale si riferiva Wallace per saper esercitare concretamente la capacità di pensare, quello del controllo, implica la disponibilità di dati da elaborare in modo da trasformarli in informazione. La cultura produce esternalità: ma se non è analizzata e misurata questa sua caratteristica rimane sullo sfondo e non aiuta a favorirne lo sviluppo e la crescita. Per questo il libro della Dubini è ricco di dati: ad esempio, non solo quanta gente va a teatro o ai concerti, ma come sono organizzati il settore teatrale e quello musicale sia per chi lo produce, sia per chi ne fruisce. I settori culturali e creativi contribuiscono al 4,2% del PIL europeo. In Italia l’ultima indagine Symbola Unioncamere stima che nel 2018 il perimetro del sistema produttivo culturale e creativo sia di oltre 92 miliardi di euro di valore aggiunto. Di questi oltre 13 miliardi provengono da settori creativi (architettura, design, comunicazione), circa 34 miliardi dai settori culturali (cinema, radio, tv, videogiochi, digitale, musica, stampa, editoria), 3 miliardi dal patrimonio storico-artistico, quasi 8 miliardi dalle arti performative. Secondo questa indagine la cultura ha sul resto dell’economia un effetto moltiplicatore pari a 1,8: in altri termini, per ogni euro prodotto dalla cultura se ne attivano 1,8 in altri settori. Ma questi dati e tutti gli altri diffusi nelle pagine del libro non sono fini a se stessi o il risultato di uno sterile esercizio di sfoggio di erudizione e di competenza. Divengono informazione ricca di significato per l’analisi: e questo passaggio dai puri dati all’informazione, proprio perché troppo spesso è dato per scontato senza capire la differenza tra i termini in gioco, merita di essere minimamente esplorato e approfondito.
Si può parlare di informazione contenuta in un sistema di qualsiasi tipo quando l’azione di questo su altri sistemi è determinata in maniera essenziale non dalla mera quantità o natura dei suoi elementi, ma dalla loro disposizione, cioè dall’insieme delle operazioni e relazioni interne, vale a dire da quello che, tecnicamente, si chiama “struttura”.
Si parla poi di trasmissione di informazione quando la riproduzione di una struttura dà luogo a repliche contenenti la stessa informazione. Entrambi i fenomeni, com’è noto, sono essenziali per la conoscenza ma anche per la vita.
Detto diversamente e in modo più informale e accessibile: si parla di informazione se in macrostrutture simili sono riconoscibili microstrutture differenti. La chiave della mia automobile è tanto simile alla tua che potremmo facilmente confonderle. La mia, però, apre la portiera della mia vettura, la tua no. Non è quindi fuori luogo dire che nella microstruttura di questa chiave è contenuta un’informazione che non c’è nella tua e che viene trasmessa alla serratura, consentendoci di aprirla.
Un altro aspetto essenziale da considerare è che non esiste informazione senza supporto. L’informazione è sempre “portata da”, o “trasmessa su” o “memorizzata in” o “contenuta in” qualcosa; questo qualcosa non è l’informazione stessa, come si evince facilmente dal fatto che la stessa informazione può essere scritta su supporti differenti e che lo stesso supporto materiale può veicolare informazioni differenti. Alcuni supporti, come ad esempio l’aria, sono particolarmente adatti alla trasmissione dell’informazione, ma non alla sua memorizzazione; per poter parlare di informazione e di sua memorizzazione sono decisive la stabilità e la solidità del supporto materiale in cui l’informazione medesima è contenuta.
L’informazione, proprio perché espressione della capacità non soltanto di raccogliere dati, ma soprattutto di metterli in relazione, è il risultato dell’arte di organizzare il pensiero, di collegare e distinguere al tempo stesso, che è la finalità chiave di quella che Morin chiama una “testa ben fatta”. Proprio per questo è il passaggio dai dati all’informazione a stimolare e favorire l’attitudine a interrogare, a legare il sapere al dubbio, a sviluppare la capacità d’integrare il sapere particolare non soltanto in un contesto globale, ma anche nella propria vita, a sollecitare l’attitudine a porsi i problemi fondamentali della propria condizione e del proprio tempo.
Il libro di Paola Dubini fa tutto questo: è significativo e prezioso proprio perché incide su entrambi gli aspetti della comunicazione evidenziati da Kierkegaard in un suo scritto poco conosciuto e citato, La dialettica della comunicazione etica ed etico-religiosa, collocato dagli editori danesi nel 1847:
A giudizio di Kierkegaard l’aberrazione dei tempi moderni è quella di aver completamente dimenticato che c’è una comunicazione che si chiama comunicazione del potere, di averla del tutto abolita, anzi di aver persino comunicato come sapere ciò che andava comunicato come potere, trascurando la loro differenza fondamentale che consiste nel fatto che ogni comunicazione di sapere è comunicazione diretta, mentre ogni comunicazione di potere è più o meno comunicazione indiretta.
Per rendere più chiara questa distinzione, Kierkegaard esemplifica: “Ogni comunicazione del sapere è nel medio della fantasia; la comunicazione dell’arte meno, in quanto essa avviene nella pratica. Ma la comunicazione nel campo etico si può dare soltanto nella realtà così che il comunicante, ovvero il maestro, esiste in ciò (che insegna) e nella situazione della realtà, e anche nella situazione della realtà egli è ciò che insegna”. La distinzione tra comunicazione diretta (o comunicazione del sapere) e comunicazione indiretta (o comunicazione del potere) viene a essere così legata alla differenziazione tra arte e scienza, per cui la confusione tra i due aspetti della comunicazione diventa confusione tra arte e scienza, nel senso che si comunica come scienza ciò che dev’essere comunicato come arte. Particolarmente emblematico, da questo punto di vista, è per Kierkegaard il caso dell’etica, che è, a suo giudizio, “assolutamente comunicazione indiretta” e che si cerca, malgrado ciò, di comunicare come scienza. Per questo egli sottolinea che “quando qualcuno tiene lezioni sull’atarassia dall’alto di una cattedra, allora ciò eticamente non è vero. No, la situazione dev’essere in modo ch’egli nello stesso tempo mostri atarassia; come per esempio se qualcuno, circondato da una schiera di uomini che l’insultano, insegni l’atarassia. All’insegnamento appartiene la situazione della realtà”.
Infatti, dopo aver fornito tutti i dati e le informazioni necessari per un’adeguata “comunicazione di sapere” Paola Dubini invita i lettori a impegnarsi nella “comunicazione di potere”, non limitandosi soltanto a reclamare un maggior investimento in cultura da parte degli altri, in particolare della politica e delle istituzioni, ma cominciando a partecipare attivamente a questo processo, praticandolo in prima persona con regolarità e costanza. Ciascuno di noi, a suo giudizio, potrebbe (e dovrebbe) cominciare nel suo piccolo e per quel che può a incrementare, di poco ma senza soluzione di continuità, gli investimenti in questo settore. Tutti possiamo fare qualcosa per la valorizzazione della cultura aumentando progressivamente, all’interno del proprio nucleo famigliare e del bilancio di cui si dispone, le spese destinate alla cultura, all’acquisto dei libri, alle viste ai musei, alla frequenza dei teatri e delle mostre.
Pertanto continuiamo pure a criticare chi non sente questa esigenza, ma iniziamo a farcene carico noi come popolazione. Può sembrare una piccola cosa, ma vi garantisco, funziona, ci dice l’autrice a suggello di questo suo prezioso contributo.
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