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E intanto, mentre non c'eri...

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 28-08-2024
I nomi epiceni
Amélie Nothomb

"Non gli passa. È difficile che la collera passi. Esiste il verbo incollerirsi, far montare dentro di sé la collera, ma non il suo contrario. P [...]

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 05-04-2024
La zona d'interesse
Martin Amis

"pensavo, come ha potuto «un sonnolento paese di poeti e sognatori», e la più colta e raffinata nazione che il mondo avesse mai visto, come ha [...]

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 05-02-2024
Il libro delle sorelle
Amélie Nothomb

"Tu che adori la letteratura non hai voglia di scrivere? - Adoro anche il vino, ma non per questo ho voglia di coltivare la vigna."

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Roberto Delogu

La sincerità è un'inutile cattiveria

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (2)
Inserito il 28-09-2016 da Laura
Aggiornato il 28-09-2016 da Laura
Disponibile in 7 librerie
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Noce Moscata

 Color grigio vita
 
La leggenda vuole che la sottile linea rossa che divide il recensore (al di là dell’attendibilità dello stesso) dal lettore della recensione, sia l’interpretazione. Per il recensore, dilettante o professionista che sia, la paura di essere fraintesi  è sempre in agguato e il misunderstanding  è sempre lì che si fa bello, pronto a far capolino. Da cosa lo si capisce? Dai commenti alla recensione.
 
Se scrivi che un libro è impegnativo come una scalata sull’Everest ma vale la pena arrivare fino in fondo per  puntellare il soffice manto nevoso con la bandierina della cultura, ci sarà sempre qualcuno che commenterà, adesso non me la sento di leggere libri impegnativi, e poi io ho paura del vuoto e il film su Messner l’ho già visto. Se scrivi che un romanzo pare futile come lo  strato di una torta millefoglie ma ha la profondità innata dello strudel, ci sarà qualcuno che dirà, capisco, quindi è un libro da ombrellone solo che ammazzarmi la digestione con lo strudel.. boh, forse ci faccio un pensierino in autunno. Se ti sforzi di spiegare una trama avvincente, al solo scopo di decostruirla e dimostrare al lettore che ciò che conta alla fine non sono le peripezie del protagonista ma la lezione morale di fondo, ci sarà sempre quello che ti dirà, ho seguito il tuo consiglio e sono andato in libreria, ma non mi ricordavo il nome del libro e così ho preso un Dan Brown, che tanto dalla quarta di copertina pareva  avvincente come quello che dicevi tu. E si può andare avanti all’infinito.
 
Allora, per non incappare nell’uomo nero del fraintendimento, eviterei di  parlarvi della trama, e farei anche a meno di soffermarmi su come l’autore ci introduce dentro questo piccolo cammeo di mondo, ma piuttosto vi parlerei dell’inizio di tutto.
 
Prima ci fu l’universo, poi vennero le antitesi. L’armonia e il caos, l’acqua e il fuoco, l’uomo e la comunità, il bianco e il nero. Zolle tettoniche che tendono a prevalere una sull’altra, e non esiste quella che ha ragione e quella che ha torto, quella buona e quella cattiva, esiste solo la zona grigia (che in questo caso esula dalla letteratura criminologica) che si forma dall’intersecarsi dei due sistemi opposti. Una zona che l’autore conosce bene perché la usa con maestria per dimostrare come il contrario e il discordante, qui dentro non siano assoluti, e perdano invece il loro colore originario, e che nella zona grigia a volte ci si perde ma se si trova un compromesso si riesce anche a galleggiare. Così impariamo che gabbia non vuol dire per forza assenza di libertà, e che esistono Prometei che oliano le catene a cui sono costretti, perché in qualche modo costituiscono un rifugio. E che l’amore mercenario non è per forza incapacità di amare, e che la debolezza non è per forza mancanza di carattere, così come la sincerità non equivale sempre a giustizia, e i nomi  Felice e Libero non danno automatico diritto alla felicità e alla libertà.  E quindi, come vedete, con questa storia degli opposti sono ricascata nel circolo vizioso del fraintendimento, in quello che non volevo dirvi, nella leggerezza del romanzo che nasconde una profondità inaspettata, ma non lasciatevi ingannare da questa mia incapacità di spiegare, perché il punto è proprio l’equilibrio che si crea tra i contrari,  quello spazio in cui l’autore ha immerso le mani, quella zona grigia che per densità sembra  la più cupa, ma è l’unica terra nullius dove le possibilità si moltiplicano all’infinito, l’unica dove alla fine si può creare vita.  

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Laura

Un romanzo molto ben scritto, dallo stile narrativo semplice e schietto, tra le cui pagine si agitano drammi di ordinaria quotidianità, vuoti difficili da colmare, solitudini smarrite tra le affollate strade dell’esistenza, così come verità taciute e desiderio, anch’esso non espresso, di essere amati semplicemente per ciò che si è, al di là di tutto e delle aspettative altrui. La piccola storia di Felice introduce il lettore all’interno del carcere, senza traumi, permettendogli di conoscere quel che all’esterno non è dato sapere, o almeno di farsene un’idea. Ecco, è forse questa la parte del libro che mi è piaciuta di più: quella che si sofferma, con attenzione e dovizia di particolari, sulla vita di ogni giorno dietro le sbarre. Per chi, come me, il carcere di Buoncammino ha fatto parte integrante e insostituibile del consueto paesaggio di un angolo urbano frequentato per vari anni, domande e riflessioni sulla prigione penso siano sorte spontanee. File di parenti davanti al portone d’ingresso non mi è mai capitato di vederne, ovviamente per motivi d’orario, ma in compenso ho spesso trovato qualcuno che, da una stradetta laterale che conduce ai giardini pubblici, gridava in direzione delle celle di quel lato del carcere. Le voci provenienti dall’interno facevano da sottofondo all’omonimo viale anche in mancanza di tali comunicazioni improvvisate, mentre bastava sollevare lo sguardo anche distrattamente per notare che sbucavano tra le sbarre mani e biancheria stesa alla bell’e meglio. Credo che, nel frattempo, lassù non sia cambiato nulla. Ho sempre pensato che fosse un mondo a parte e, in effetti, lo è. Un mondo con le sue gerarchie, le sue regole, scritte e non scritte, e le sue giornate scandite da abitudini e ritmi consueti. Un microcosmo popolato da una umanità variegata, per la maggior parte persone in fin dei conti “normali” che, se non dovessero scontare pene detentive, farebbero altro nella vita. Un luogo dove a tutti spetta di diritto essere giudicati una seconda volta e dove, tra le tante sfumature di colore (non esistono, infatti, soltanto il bianco e il nero), “c’è merda e merda”. L’unico posto in cui, paradossalmente, molti trovano la propria dimensione, sentendosi veramente liberi come mai riusciranno a esserlo al di fuori di quelle mura. E quest’ultimo punto, in modo particolare, dovrebbe indurci a riflettere su quale tipo di società sia ormai diventata la nostra.

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Editore: Madrikè

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 120

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-13: 9788889045022

Data di pubblicazione: 2010

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Se scrivi che un libro è impegnativo come una scalata sull’Everest ma vale la pena arrivare fino in fondo per  puntellare il soffice manto nevoso con la bandierina della cultura, ci sarà sempre qualcuno che commenterà, adesso non me la sento di leggere libri impegnativi, e poi io ho paura del vuoto e il film su Messner l’ho già visto. Se scrivi che un romanzo pare futile come lo  strato di una torta millefoglie ma ha la profondità innata dello strudel, ci sarà qualcuno che dirà, capisco, quindi è un libro da ombrellone solo che ammazzarmi la digestione con lo strudel.. boh, forse ci faccio un pensierino in autunno. Se ti sforzi di spiegare una trama avvincente, al solo scopo di decostruirla e dimostrare al lettore che ciò che conta alla fine non sono le peripezie del protagonista ma la lezione morale di fondo, ci sarà sempre quello che ti dirà, ho seguito il tuo consiglio e sono andato in libreria, ma non mi ricordavo il nome del libro e così ho preso un Dan Brown, che tanto dalla quarta di copertina pareva  avvincente come quello che dicevi tu. E si può andare avanti all’infinito.
 
Allora, per non incappare nell’uomo nero del fraintendimento, eviterei di  parlarvi della trama, e farei anche a meno di soffermarmi su come l’autore ci introduce dentro questo piccolo cammeo di mondo, ma piuttosto vi parlerei dell’inizio di tutto.
 
Prima ci fu l’universo, poi vennero le antitesi. L’armonia e il caos, l’acqua e il fuoco, l’uomo e la comunità, il bianco e il nero. Zolle tettoniche che tendono a prevalere una sull’altra, e non esiste quella che ha ragione e quella che ha torto, quella buona e quella cattiva, esiste solo la zona grigia (che in questo caso esula dalla letteratura criminologica) che si forma dall’intersecarsi dei due sistemi opposti. Una zona che l’autore conosce bene perché la usa con maestria per dimostrare come il contrario e il discordante, qui dentro non siano assoluti, e perdano invece il loro colore originario, e che nella zona grigia a volte ci si perde ma se si trova un compromesso si riesce anche a galleggiare. Così impariamo che gabbia non vuol dire per forza assenza di libertà, e che esistono Prometei che oliano le catene a cui sono costretti, perché in qualche modo costituiscono un rifugio. E che l’amore mercenario non è per forza incapacità di amare, e che la debolezza non è per forza mancanza di carattere, così come la sincerità non equivale sempre a giustizia, e i nomi  Felice e Libero non danno automatico diritto alla felicità e alla libertà.  E quindi, come vedete, con questa storia degli opposti sono ricascata nel circolo vizioso del fraintendimento, in quello che non volevo dirvi, nella leggerezza del romanzo che nasconde una profondità inaspettata, ma non lasciatevi ingannare da questa mia incapacità di spiegare, perché il punto è proprio l’equilibrio che si crea tra i contrari,  quello spazio in cui l’autore ha immerso le mani, quella zona grigia che per densità sembra  la più cupa, ma è l’unica terra nullius dove le possibilità si moltiplicano all’infinito, l’unica dove alla fine si può creare vita.  

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Un romanzo molto ben scritto, dallo stile narrativo semplice e schietto, tra le cui pagine si agitano drammi di ordinaria quotidianità, vuoti difficili da colmare, solitudini smarrite tra le affollate strade dell’esistenza, così come verità taciute e desiderio, anch’esso non espresso, di essere amati semplicemente per ciò che si è, al di là di tutto e delle aspettative altrui. La piccola storia di Felice introduce il lettore all’interno del carcere, senza traumi, permettendogli di conoscere quel che all’esterno non è dato sapere, o almeno di farsene un’idea. Ecco, è forse questa la parte del libro che mi è piaciuta di più: quella che si sofferma, con attenzione e dovizia di particolari, sulla vita di ogni giorno dietro le sbarre. Per chi, come me, il carcere di Buoncammino ha fatto parte integrante e insostituibile del consueto paesaggio di un angolo urbano frequentato per vari anni, domande e riflessioni sulla prigione penso siano sorte spontanee. File di parenti davanti al portone d’ingresso non mi è mai capitato di vederne, ovviamente per motivi d’orario, ma in compenso ho spesso trovato qualcuno che, da una stradetta laterale che conduce ai giardini pubblici, gridava in direzione delle celle di quel lato del carcere. Le voci provenienti dall’interno facevano da sottofondo all’omonimo viale anche in mancanza di tali comunicazioni improvvisate, mentre bastava sollevare lo sguardo anche distrattamente per notare che sbucavano tra le sbarre mani e biancheria stesa alla bell’e meglio. Credo che, nel frattempo, lassù non sia cambiato nulla. Ho sempre pensato che fosse un mondo a parte e, in effetti, lo è. Un mondo con le sue gerarchie, le sue regole, scritte e non scritte, e le sue giornate scandite da abitudini e ritmi consueti. Un microcosmo popolato da una umanità variegata, per la maggior parte persone in fin dei conti “normali” che, se non dovessero scontare pene detentive, farebbero altro nella vita. Un luogo dove a tutti spetta di diritto essere giudicati una seconda volta e dove, tra le tante sfumature di colore (non esistono, infatti, soltanto il bianco e il nero), “c’è merda e merda”. L’unico posto in cui, paradossalmente, molti trovano la propria dimensione, sentendosi veramente liberi come mai riusciranno a esserlo al di fuori di quelle mura. E quest’ultimo punto, in modo particolare, dovrebbe indurci a riflettere su quale tipo di società sia ormai diventata la nostra.

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