Dopo quattro anni di carcere, il ladro Mahran ritrova la libertà, ma il suo animo devastato è occupato solo da desideri di vendetta nei confronti di chi ha causato il suo arresto, si è impossessato dei suoi beni, gli ha rubato l’amore della moglie e l’affetto della figlia. Le parole del suo vecchio maestro spirituale gli paiono ormai prive di significato, gli amici di un tempo lo deludono e lo scansano, incontra enormi difficoltà, da ex carcerato, nel trovare un lavoro e una casa. In breve si convince che l’ultimo senso residuo della sua esistenza risiede proprio nella vendetta, e si dedica a prepararla accuratamente. Ma le cose vanno diversamente da come aveva immaginato: anziché colpire i suoi traditori, riesce solo a uccidere due innocenti e infine, circondato dalla polizia, si abbandona dopo un’estrema, inutile resistenza al suo ultimo destino.
Pubblicato nel 1961, questo romanzo breve è stato definito la più “europea” fra le opere dello scrittore egiziano: al di là delle ramificazioni dell’intreccio, esso trova il suo centro nel problema squisitamente “occidentale” dell’identità negata, o almeno resa estremamente precaria e labile dai colpi di una realtà insensibile e aliena. Gli ampi squarci metafisici del libro, che non hanno nulla di confessionale, convergono nel sottolineare l’angosciata solitudine dell’individuo nel mondo, la sua impossibilità di capire e controllare il senso del proprio “esserci”, l’idea che la società e la Storia siano macchine sostanzialmente autosufficienti, del tutto indifferenti alla sorte dei singoli uomini che coinvolgono: una condizione priva di luce, che prende forma nei rintocchi di una scrittura tanto più tragica, quanto più asciutta e trasparente.