Un ragazzo sale su di un albero, si arrampica tra i rami, passa da una pianta all'altra, decide che non scenderà più. L'autore di questo libro non ha fatto che sviluppare questa semplice immagine e portarla alle estreme conseguenze: il protagonista trascorre l'intera vita sugli alberi, una vita tutt'altro che monotona, anzi: piena d'avventure, e tutt'altro che da eremita, però sempre mantenendo tra sé e i suoi simili questa minima ma invalicabile distanza.
Ne è nato un libro, Il barone rampante, piuttosto insolito nella letteratura contemporanea, scritto nel 1956-57 da un autore che aveva allora trentatré anni; un libro che sfugge a ogni definizione precisa, così come il protagonista salta da un ramo di leccio a quello d'un carrubo e resta più inafferrabile d'un animale selvatico.
Che dietro il divertimento letterario del Barone rampante si senta il ricordo - anzi la nostalgia - delle letture della fanciullezza, brulicanti di personaggi e casi paradossali, appare chiaro. Ci si può trovare anche il gusto di quei classici della narrativa avventurosa in cui un uomo deve risolvere le difficoltà d'una situazione data, d'una lotta con la natura (a cominciare da Robinson Crusoe naufrago sull'isola deserta), o d'una scommessa con se stesso, d'una prova da superare (come Phileas Fogg che corre intorno al mondo in ottanta giorni). Solo che qui la prova, la scommessa è qualcosa d'assurdo e d'incredibile.