«Il bello del lavoro dello scrittore sta proprio in questo: può riscattare delle vicende che nella realtà sono sempre frantumate e caotiche», racconta di sé Laura Pariani (e parafrasa il senso del narrare le storie che era già secondo Omero: gli dei tessono sventure per gli uomini affinché le generazioni future abbiano qualcosa da cantare). Laura Pariani ha poi bisogno di una data precisa, e di un luogo circoscritto, di un fatto anche minuscolo: «ai margini della storia ufficiale, frammenti, brandelli di storie dimenticate e vaghe» -, e suoi personaggi cominciano a muoversi, a prendere sensibilmente vita, con un senso del tempo e del ritmo che ha davvero qualcosa di prossimo al respirare stesso (e una aderenza tra materia del racconto e stile assai rara ormai nella nostra frettolosa letteratura). Sono i suoi personaggi - in questo libro di racconti, come nel precedente Di corno o d'oro - sempre donne, per lo più fanciulle contadine allo schiudersi di aspettative subito deluse, o vecchie sul finire della vita che ricordano; quasi sempre, presso paesaggi di campagna che portano, appena accennate ma visibilissime, le piaghe della storia. E incastrate tra queste piaghe e un frammento di dolore personale intensissimo, con la forza dello stoicismo contadino che viene loro dalle filastrocche, dai proverbi, dai racconti dei vecchi, le donne di Laura Pariani discorrono con l'immensità.