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E intanto, mentre non c'eri...

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 28-08-2024
I nomi epiceni
Amélie Nothomb

"Non gli passa. È difficile che la collera passi. Esiste il verbo incollerirsi, far montare dentro di sé la collera, ma non il suo contrario. P [...]

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 05-04-2024
La zona d'interesse
Martin Amis

"pensavo, come ha potuto «un sonnolento paese di poeti e sognatori», e la più colta e raffinata nazione che il mondo avesse mai visto, come ha [...]

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 05-02-2024
Il libro delle sorelle
Amélie Nothomb

"Tu che adori la letteratura non hai voglia di scrivere? - Adoro anche il vino, ma non per questo ho voglia di coltivare la vigna."

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Zerocalcare

Kobane Calling

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (1)
Inserito il 21-01-2019 da LaCasula
Aggiornato il 21-01-2019 da LaCasula
Disponibile in 3 librerie
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Aggiornato il 21-01-2019 da LaCasula
Disponibile in 3 librerie

Tre viaggi nel corso di un anno. Turchia, Iraq, Siria, per documentare la vita della resistenza curda in una delle zone calde meno spiegate dai media mainstream. Zerocalcare realizza un lungo racconto, a tratti intimo, a tratti corale, nel quale l'esistenza degli abitanti del Rojava (una regione il cui nome non si sente mai ai telegiornali) emerge come un baluardo di estrema speranza per tutta l'umanità.

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Laura

Anche se alla fine dell’anno manca ancora parecchio, “Kobane calling” finisce fin da ora, di diritto, nella mia personale e ristretta lista delle migliori letture del 2016. Per me è stata una sorprendente nonché bellissima scoperta, questa di Zerocalcare: dopo avermi molto emozionata con “Dimentica il mio nome”, poco entusiasmata con “Dodici” (devo ammetterlo a rigor di cronaca), ora questo suo nuovo lavoro mi ha letteralmente conquistata! Non saprei bene come definirlo, se un reportage o un diario di viaggio o altro; di certo, “Kobane calling” non è soltanto un fumetto: esso è anzitutto il racconto attento e coinvolgente di ciò che sta accadendo in un angolo di quell’Oriente a noi prossimo e del quale i media ufficiali, pronti a inseguire i clamori del momento, ci parlano ormai sempre meno. Eppure laggiù si consuma una guerra tra le più feroci del nostro tempo. Una guerra che, sebbene riguardi l’Europa forse più di altre cui essa in passato ha dato sostegno, lasciamo combattere al popolo curdo. Ecco, “Kobane calling” ha il merito di accendere i riflettori su quest’ultimo, tanto bistrattato dalla Storia e dall’ipocrisia della diplomazia internazionale, dal momento che alla fine del primo conflitto mondiale, con il crollo dell’Impero ottomano, i curdi non solo non si videro riconoscere un proprio stato, ma si ritrovarono per giunta divisi fra ben quattro Paesi: Turchia, Siria, Iraq e Iran. E per un popolo senza terra, si sa, non può esserci pace. Da sempre disprezzati e disconosciuti come realtà etnica e linguistica, combattuti e repressi brutalmente sotto i regimi dittatoriali dell’area, i curdi stanno dando una grandissima lezione di civiltà dai monti di Qandil, al confine tra Iran e Iraq, dove ha base il PKK, fino a tutto il nord della Siria (il Rojava), de facto territorio autonomo e coraggioso laboratorio di una società basata su una democrazia che non suoni più come vuota parola. Intanto, combattono l’Isis o Daesh, come lì si chiama quel califfato, fuori dal tempo e dalla grazia di qualunque dio, i cui sanguinari tentacoli arrivano fin nelle nostre fragili città d’Europa. Un’esperienza che – per riprendere le parole dell’autore – “va aiutata, difesa, sostenuta. Perché se perdono loro, perdono tutti”. Invece, da parte dei nostri governi che cosa è arrivato? Elogi, incoraggiamenti, discorsi ammirati: nient’altro che belle quanto inutili parole, ma nessun sostegno economico, mentre i curdi, uomini e donne insieme, armi alla mano, continuano a dare il proprio sangue quale unica moneta da versare. La città di Kobane è il simbolo di quella resistenza. Toccanti le tavole che la ritraggono con i suoi cumuli di macerie, gli edifici sventrati dalle bombe, l’odore di morte che serpeggia tra le sue strade per buona parte spettrali. Ho trovato in queste pagine profonda partecipazione emotiva da parte di Michele Rech, alias Zerocalcare; del resto, non potrebbe essere altrimenti quando si viaggia e si vedono con i propri occhi determinate realtà, si ascolta la gente del posto, si respira il dramma quotidiano senza filtri di sorta. Allora, d’un tratto, sai da che parte stare e tornare indietro in nome del politicamente corretto ti sembrerebbe come tradire te stesso e il tuo cuore che da quel momento apparterrà anche a quel luogo che pur si trova a chissà quanti chilometri di distanza da casa tua. Per quanto mi riguarda, anni fa mi è successo in Palestina, un’altra grande Kobane abbandonata anch’essa all’indifferenza del mondo. “A me risulta difficile concepire un’appartenenza diversa dal mio quartiere. Forse però ci sono cose che trascendono la geografia e parlano ad altre corde, che manco sappiamo di avere.” Zerocalcare dice di non essere un poeta e di non avere altro se non il “povero lessico” che la vita gli ha messo a disposizione per esprimersi, ma credo si sbagli poiché, infine, tocca per davvero le corde del cuore con la sua arte meravigliosa, nella quale immagini e parole diventano una cosa sola regalando al lettore più di un’emozione. Oltre alla correttezza delle annotazioni storiche, sono presenti il rifiuto di stupide generalizzazioni (il voler, insomma, fare di tutta un’erba un fascio) e considerazioni su questioni culturali e religiose che personalmente condivido, per tacere della autentica pochezza di certe affermazioni sulla presunta (e presuntuosa) superiorità della cultura occidentale in bocca ai nostri politici. Soprattutto, questa lettura ha suscitato in me il desiderio di approfondire la conoscenza del popolo curdo che, nel corso degli studi fatti, ho sempre incontrato marginalmente, en passant, nonostante esso avesse il diritto di essere protagonista quanto gli altri nello scacchiere vicino-orientale. Mi auguro che “Kobane calling” venga letto da più gente possibile, in particolare dai giovani, perché c’è bisogno di opere di denuncia come questa che smuovano le coscienze e facciano informazione; ne consiglio la lettura a chi voglia saperne di più sul Kurdistan, sulla guerra in corso a causa dell’Isis e sugli inquietanti retroscena turchi, adesso, se ci pensiamo, ancor più inquietanti dopo il fallito colpo di stato militare e l’immediata repressione da parte del novello sultano Erdogan che sta mostrando il peggio del proprio regime. Un libro, questo, per conoscere e riflettere, anche con il cuore.

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Editore: Bao Publishing

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 272

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-10: 8865436182

ISBN-13: 9788865436189

Data di pubblicazione: 2016

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Una guerra che, sebbene riguardi l’Europa forse più di altre cui essa in passato ha dato sostegno, lasciamo combattere al popolo curdo. Ecco, “Kobane calling” ha il merito di accendere i riflettori su quest’ultimo, tanto bistrattato dalla Storia e dall’ipocrisia della diplomazia internazionale, dal momento che alla fine del primo conflitto mondiale, con il crollo dell’Impero ottomano, i curdi non solo non si videro riconoscere un proprio stato, ma si ritrovarono per giunta divisi fra ben quattro Paesi: Turchia, Siria, Iraq e Iran. E per un popolo senza terra, si sa, non può esserci pace. Da sempre disprezzati e disconosciuti come realtà etnica e linguistica, combattuti e repressi brutalmente sotto i regimi dittatoriali dell’area, i curdi stanno dando una grandissima lezione di civiltà dai monti di Qandil, al confine tra Iran e Iraq, dove ha base il PKK, fino a tutto il nord della Siria (il Rojava), de facto territorio autonomo e coraggioso laboratorio di una società basata su una democrazia che non suoni più come vuota parola. Intanto, combattono l’Isis o Daesh, come lì si chiama quel califfato, fuori dal tempo e dalla grazia di qualunque dio, i cui sanguinari tentacoli arrivano fin nelle nostre fragili città d’Europa. Un’esperienza che – per riprendere le parole dell’autore – “va aiutata, difesa, sostenuta. Perché se perdono loro, perdono tutti”. Invece, da parte dei nostri governi che cosa è arrivato? Elogi, incoraggiamenti, discorsi ammirati: nient’altro che belle quanto inutili parole, ma nessun sostegno economico, mentre i curdi, uomini e donne insieme, armi alla mano, continuano a dare il proprio sangue quale unica moneta da versare. La città di Kobane è il simbolo di quella resistenza. Toccanti le tavole che la ritraggono con i suoi cumuli di macerie, gli edifici sventrati dalle bombe, l’odore di morte che serpeggia tra le sue strade per buona parte spettrali. Ho trovato in queste pagine profonda partecipazione emotiva da parte di Michele Rech, alias Zerocalcare; del resto, non potrebbe essere altrimenti quando si viaggia e si vedono con i propri occhi determinate realtà, si ascolta la gente del posto, si respira il dramma quotidiano senza filtri di sorta. Allora, d’un tratto, sai da che parte stare e tornare indietro in nome del politicamente corretto ti sembrerebbe come tradire te stesso e il tuo cuore che da quel momento apparterrà anche a quel luogo che pur si trova a chissà quanti chilometri di distanza da casa tua. Per quanto mi riguarda, anni fa mi è successo in Palestina, un’altra grande Kobane abbandonata anch’essa all’indifferenza del mondo. “A me risulta difficile concepire un’appartenenza diversa dal mio quartiere. Forse però ci sono cose che trascendono la geografia e parlano ad altre corde, che manco sappiamo di avere.” Zerocalcare dice di non essere un poeta e di non avere altro se non il “povero lessico” che la vita gli ha messo a disposizione per esprimersi, ma credo si sbagli poiché, infine, tocca per davvero le corde del cuore con la sua arte meravigliosa, nella quale immagini e parole diventano una cosa sola regalando al lettore più di un’emozione. Oltre alla correttezza delle annotazioni storiche, sono presenti il rifiuto di stupide generalizzazioni (il voler, insomma, fare di tutta un’erba un fascio) e considerazioni su questioni culturali e religiose che personalmente condivido, per tacere della autentica pochezza di certe affermazioni sulla presunta (e presuntuosa) superiorità della cultura occidentale in bocca ai nostri politici. Soprattutto, questa lettura ha suscitato in me il desiderio di approfondire la conoscenza del popolo curdo che, nel corso degli studi fatti, ho sempre incontrato marginalmente, en passant, nonostante esso avesse il diritto di essere protagonista quanto gli altri nello scacchiere vicino-orientale. Mi auguro che “Kobane calling” venga letto da più gente possibile, in particolare dai giovani, perché c’è bisogno di opere di denuncia come questa che smuovano le coscienze e facciano informazione; ne consiglio la lettura a chi voglia saperne di più sul Kurdistan, sulla guerra in corso a causa dell’Isis e sugli inquietanti retroscena turchi, adesso, se ci pensiamo, ancor più inquietanti dopo il fallito colpo di stato militare e l’immediata repressione da parte del novello sultano Erdogan che sta mostrando il peggio del proprio regime. Un libro, questo, per conoscere e riflettere, anche con il cuore.

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