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E intanto, mentre non c'eri...

Michela L.


Huckelberry Finn
Questo mese, 05-04-2024
La zona d'interesse
Martin Amis

"pensavo, come ha potuto «un sonnolento paese di poeti e sognatori», e la più colta e raffinata nazione che il mondo avesse mai visto, come ha [...]

Michela L.


Huckelberry Finn
Oltre un mese fa, 05-02-2024
Il libro delle sorelle
Amélie Nothomb

"Tu che adori la letteratura non hai voglia di scrivere? - Adoro anche il vino, ma non per questo ho voglia di coltivare la vigna."

Akribia


Don Chisciotte
Oltre un mese fa, 23-10-2023
Il delta di Venere
Anaïs Nin

Ma è terribile! Com'è possibile che sia considerato un classico della letteratura erotica?

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John Steinbeck

Furore

Voto medio della comunità Lìberos
Recensioni (3)
Inserito il 29-05-2020 da Maria Agostina
Aggiornato il 25-06-2021 da Maria Agostina
Disponibile in 6 librerie
Inserito il 29-05-2020 da Maria Agostina
Aggiornato il 25-06-2021 da Maria Agostina
Disponibile in 6 librerie

Pietra miliare della letteratura americana, Furore è un romanzo mitico, pubblicato negli Stati Uniti nel 1939 e coraggiosamente proposto in Italia da Valentino Bompiani l’anno seguente. Il libro fu perseguitato dalla censura fascista e solo ora, dopo più di 70 anni, vede la luce la prima edizione integrale, nella nuova traduzione di Sergio Claudio Perroni. Una versione basata sul testo inglese della Centennial Edition dell’opera di Steinbeck, che restituisce finalmente ai lettori la forza e la modernità della scrittura del Premio Nobel per la Letteratura 1962. Nell’odissea della famiglia Joad sfrattata dalla sua casa e dalla sua terra, in penosa marcia verso la California, lungo la Route 66 come migliaia e migliaia di americani, rivive la trasformazione di un’intera nazione. L’impatto amaro con la terra promessa dove la manodopera è sfruttata e mal pagata, dove ciascuno porta con sé la propria miseria “come un marchio d’infamia”. Al tempo stesso romanzo di viaggio e ritratto epico della lotta dell’uomo contro l’ingiustizia, Furore è forse il più americano dei classici americani, da leggere oggi per la prima volta in tutta la sua bellezza.

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Recensioni

Laura

Un pugno nello stomaco: ecco che cosa sentivo a ogni pagina di questo lungo e intenso romanzo. Perché “Furore” è un libro che fa male, molto male. Induce a pensare, riflettere, interrogarsi. Per poi lasciare un misto di amarezza, disgusto e – manco a dirlo – rabbia. Con un impressionante realismo, fin da quel “in principio fu la polvere” (con cui mi piace riassumere il primo capitolo), Steinbeck ci scaraventa in un pezzo d’America della Grande Depressione, dove le parole della Dichiarazione d’Indipendenza dell’ormai lontano 1776 riecheggiano come mera utopia e autentica beffa: “[…] che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità […]” Al seguito della famiglia Joad, tra le centinaia di migliaia di diseredati che all’epoca, con i loro vecchi catorci, inondavano la Route 66 alla volta della novella terra promessa della California, ci si rende conto che il cosiddetto “American dream” non è mica roba per tutti; di certo, non per i contadini cacciati dalla dura legge del profitto economico delle banche e dall’avanzare dei trattori, sospinti dalla fame e dai capricci del tempo, accampati ai margini dell’opulenza altrui, calpestati e sfruttati dal disprezzo. La vicenda narrata è nota, fortuna e vicissitudini dell’opera e del suo autore pure. Che cosa si può dire o scrivere di questo che, a ragione, è stato inserito tra i dieci migliori libri del XX secolo che ancora non sia già stato detto o scritto? Mi sento soltanto di sottolineare la straordinaria attualità che ho trovato nella lettura di queste pagine, a dispetto del tempo e dello spazio di ambientazione: “Nell'Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano mai desiderato niente videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro. Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. Rubano qualsiasi cosa. Non hanno il senso della proprietà. E su quest'ultima cosa avevano ragione, perché come può un uomo senza proprietà conoscere l'ansia della proprietà? E i difensori dissero: Sono sporchi, portano malattie. Non possiamo lasciarli entrare nelle scuole. Sono stranieri. Ti piacerebbe veder uscire tua sorella con uno di quelli?” Sostituiamo “Okie”, termine con il quale i californiani chiamavano sprezzantemente i nuovi arrivati dall’Oklahoma, con africani, asiatici, siriani etc. o, più in generale, immigrati (a suo tempo, avrebbe reso bene anche la parola meridionali); la Route 66 con la rotta mediterranea o con le polverose strade lungo i Balcani: ecco che dagli Stati Uniti degli anni Trenta del secolo scorso ci ritroviamo di colpo nell’Europa dei giorni nostri, dinnanzi al dramma dell’emigrazione che abbiamo sotto gli occhi e a tutte le nostre paure. Paura perché loro hanno fame, paura perché sono tanti, troppi, “un’invasione”, giusto per riprendere un’espressione usata abitualmente; paura perché “quando una moltitudine di uomini ha fame e freddo, il necessario se lo prende con la forza”. Può accadere, se tale moltitudine vede e subisce torti e ingiustizie che calpestano la dignità degli esseri umani. Una storia di profondo dolore, dove dire che la vita è dura è semplice eufemismo. È però, nel contempo, anche una storia di speranza in un futuro e una umanità migliori; e dalle parole di commiato di Tom Joad (che possiamo in parte ascoltare sulle note di una famosa canzone di Bruce Springsteen, sezione Musica & Video), seppur frammista a tanta amarezza, essa traspare tutta.

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Luisa

Mi ha lasciato (purtroppo) troppo presto!Avrei voluto continuare a leggere la storia della famiglia Joad, ma con un finale così non si poteva aggiungere altro!!Un finale che mi ha fatto commuovere per la sua intensità.. come del resto tutto il libro..così reale e appassionante.

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Maria Agostina

Siamo tutti Joad, siamo reietti, presi in giro, maltrattati affamati e lo saremo sempre finché l'ultimo dei nostri fratelli da qualche parte nel mondo sarà scacciato dal luogo in cui è nato, mandato lontano chilometri di terra, di sabbia, di mare. Un capolavoro che prima ci ricorda chi siamo, poi ci indica da che parte stare.

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Editore: Bompiani

Lingua: (DATO NON PRESENTE)

Numero di pagine: 633

Formato: (DATO NON PRESENTE)

ISBN-10: 8845274055

ISBN-13: 9788845274053

Data di pubblicazione: 2013

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Furore

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Pietra miliare della letteratura americana, Furore è un romanzo mitico, pubblicato negli Stati Uniti nel 1939 e coraggiosamente proposto in Italia da Valentino Bompiani l’anno seguente. Il libro fu perseguitato dalla censura fascista e solo ora, dopo più di 70 anni, vede la luce la prima edizione integrale, nella nuova traduzione di Sergio Claudio Perroni. Una versione basata sul testo inglese della Centennial Edition dell’opera di Steinbeck, che restituisce finalmente ai lettori la forza e la modernità della scrittura del Premio Nobel per la Letteratura 1962. Nell’odissea della famiglia Joad sfrattata dalla sua casa e dalla sua terra, in penosa marcia verso la California, lungo la Route 66 come migliaia e migliaia di americani, rivive la trasformazione di un’intera nazione. L’impatto amaro con la terra promessa dove la manodopera è sfruttata e mal pagata, dove ciascuno porta con sé la propria miseria “come un marchio d’infamia”. Al tempo stesso romanzo di viaggio e ritratto epico della lotta dell’uomo contro l’ingiustizia, Furore è forse il più americano dei classici americani, da leggere oggi per la prima volta in tutta la sua bellezza.

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Un pugno nello stomaco: ecco che cosa sentivo a ogni pagina di questo lungo e intenso romanzo. Perché “Furore” è un libro che fa male, molto male. Induce a pensare, riflettere, interrogarsi. Per poi lasciare un misto di amarezza, disgusto e – manco a dirlo – rabbia. Con un impressionante realismo, fin da quel “in principio fu la polvere” (con cui mi piace riassumere il primo capitolo), Steinbeck ci scaraventa in un pezzo d’America della Grande Depressione, dove le parole della Dichiarazione d’Indipendenza dell’ormai lontano 1776 riecheggiano come mera utopia e autentica beffa: “[…] che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità […]” Al seguito della famiglia Joad, tra le centinaia di migliaia di diseredati che all’epoca, con i loro vecchi catorci, inondavano la Route 66 alla volta della novella terra promessa della California, ci si rende conto che il cosiddetto “American dream” non è mica roba per tutti; di certo, non per i contadini cacciati dalla dura legge del profitto economico delle banche e dall’avanzare dei trattori, sospinti dalla fame e dai capricci del tempo, accampati ai margini dell’opulenza altrui, calpestati e sfruttati dal disprezzo. La vicenda narrata è nota, fortuna e vicissitudini dell’opera e del suo autore pure. Che cosa si può dire o scrivere di questo che, a ragione, è stato inserito tra i dieci migliori libri del XX secolo che ancora non sia già stato detto o scritto? Mi sento soltanto di sottolineare la straordinaria attualità che ho trovato nella lettura di queste pagine, a dispetto del tempo e dello spazio di ambientazione: “Nell'Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano mai desiderato niente videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combatterne un altro. Dicevano: Quei maledetti Okie sono sporchi e ignoranti. Sono maniaci sessuali, sono degenerati. Quei maledetti Okie sono ladri. Rubano qualsiasi cosa. Non hanno il senso della proprietà. E su quest'ultima cosa avevano ragione, perché come può un uomo senza proprietà conoscere l'ansia della proprietà? E i difensori dissero: Sono sporchi, portano malattie. Non possiamo lasciarli entrare nelle scuole. Sono stranieri. Ti piacerebbe veder uscire tua sorella con uno di quelli?” Sostituiamo “Okie”, termine con il quale i californiani chiamavano sprezzantemente i nuovi arrivati dall’Oklahoma, con africani, asiatici, siriani etc. o, più in generale, immigrati (a suo tempo, avrebbe reso bene anche la parola meridionali); la Route 66 con la rotta mediterranea o con le polverose strade lungo i Balcani: ecco che dagli Stati Uniti degli anni Trenta del secolo scorso ci ritroviamo di colpo nell’Europa dei giorni nostri, dinnanzi al dramma dell’emigrazione che abbiamo sotto gli occhi e a tutte le nostre paure. Paura perché loro hanno fame, paura perché sono tanti, troppi, “un’invasione”, giusto per riprendere un’espressione usata abitualmente; paura perché “quando una moltitudine di uomini ha fame e freddo, il necessario se lo prende con la forza”. Può accadere, se tale moltitudine vede e subisce torti e ingiustizie che calpestano la dignità degli esseri umani. Una storia di profondo dolore, dove dire che la vita è dura è semplice eufemismo. È però, nel contempo, anche una storia di speranza in un futuro e una umanità migliori; e dalle parole di commiato di Tom Joad (che possiamo in parte ascoltare sulle note di una famosa canzone di Bruce Springsteen, sezione Musica & Video), seppur frammista a tanta amarezza, essa traspare tutta.

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Siamo tutti Joad, siamo reietti, presi in giro, maltrattati affamati e lo saremo sempre finché l'ultimo dei nostri fratelli da qualche parte nel mondo sarà scacciato dal luogo in cui è nato, mandato lontano chilometri di terra, di sabbia, di mare. Un capolavoro che prima ci ricorda chi siamo, poi ci indica da che parte stare.

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